Dostoevskij, Tolkien & Eliot: il deserto, l’eroe, il potere e la grazia
di Federico Maria Giani

[…] Cosa darei per non aver mai visto quest’Anello! Perché è toccato a me? Come mai sono stato scelto io?”

“Queste sono domande senza risposta”, disse Gandalf. “[…] Ma sei stato scelto tu, ed hai dunque il dovere di adoperare tutta la forza, l’intelligenza ed il coraggio di cui puoi disporre”.

“Ma posseggo talmente poco di tutto ciò! […]

[…]“Vorrei tanto salvare la Contea, se potessi farlo […]. Ma, come mi sento piccolo, sradicato e… disperato. Il Nemico è talmente forte e terribile!” (i)

 

In questo dialogo con l’amico Gandalf, Frodo presenta tutto se stesso: egli è l’eroe principale del romanzo di Tolkien, Il Signore degli Anelli, ma non è un eroe nel senso classico, o meglio ancora, romantico della parola.

Non è l’eroe romantico, ovvero, non è un personaggio che, dotato di grande forza e coraggio, affronta titanicamente un’impresa che lo condurrà alla gloria e alla conquista di qualcosa di prezioso.

Frodo, nella sua persona, demolisce punto per punto quest’immagine: non si afferma più l’eroe titanico, ma l’eroe umano.

La sua prima caratteristica infatti è l’umiltà: umiltà di riconoscersi limitato, di ammettere di possedere poco tra forza, intelligenza e coraggio. Un comportamento diametralmente opposto a quello dei personaggi incontrati precedentemente, si dice infatti di Melkor:

…quando gli Ainur ebbero contemplato codesta dimora […] ecco che molti dei più possenti tra loro indirizzarono tutti i propri pensieri e desideri verso quel luogo. E di costoro Melkor era il principale […]. Ed egli finse, dapprima persino con se stesso, che desiderava recarvisi e dar ordine a tutte le cose per il bene […]. Invero, però, desiderava assoggettare alla propria volontà sia Elfi che Uomini, invidioso com’era dei doni onde Ilúvatar prometteva di dotarli; e desiderava di avere a sua volta soggetti e schiavi, e di essere chiamato Signore, e di esercitare dominio su volontà altrui. […] Mentre dunque la Terra era ancora giovane e fiammeggiante, Melkor la desiderò ardentemente, e disse agli altri Valar: “Questo sarà il mio regno; e io lo designerò con un nome di mia scelta!”. (ii)

L’egoismo di Melkor, provocato dalla sua superbia, introduce un altro aspetto dell’umiltà di Frodo.

Egli non crede di poter determinare la sua vita, e non vuole tenere tutto per sé: la sua umiltà si manifesta proprio nel modo in cui accetta il proprio destino.

Tant’è vero che, trovatosi fra le mani l’Anello di Sauron, oggetto di indescrivibile potere e malvagità, accetta di caricarsi del pesante fardello della sua distruzione: egli obbedisce alle circostanze anche se ciò che gli viene chiesto và al di là delle sue forze.

Un irresistibile desiderio di riposo e di pace accanto a Bilbo a Gran Burrone gli empì il cuore. Infine, e con grande sforzo, parlò, meravigliandosi di udire le proprie parole, come se qualche altra volontà comandasse la sua piccola voce.

“Prenderò io l’Anello”, disse, “ma non conosco la strada”... (iii)

Ed è proprio nell’ultima affermazione, che esprime la lucida coscienza di essere piccoli di fronte al proprio destino, che si svela l’ultima faccia dell’umiltà di Frodo: la consapevolezza di aver bisogno d’aiuto.

Non sarebbero comunque bastate né la forza fisica né quella d’animo di un solo individuo ad affrontare la prova che viene chiesta a Frodo: l’unica cosa in grado di sostenerlo nella Missione, che poi è la vita, è la Compagnia, compagnia di qualcuno che tiene al suo destino come al proprio, che lo ama.

[…] Eppure mi domando se un giorno ci metteranno nelle favole e nelle canzoni. La storia la stiamo vivendo, beninteso, ma chissà se faranno un racconto da narrare accanto al camino, o da leggere per anni e anni in un grosso libro dai caratteri rossi e neri. E la gente dirà: “Parlateci di Frodo e dell’Anello!”. E poi dirà: “Sì, è una delle storie preferite. Frodo era molto coraggioso, nevvero papà?”. “Sì ragazzo mio, il più famoso degli Hobbit, ed è dir molto””.

“È dir di gran lunga troppo”, ribatté Frodo ridendo, un riso lungo e limpido, sgorgato dal cuore.

[…]

[…] Ma hai dimenticato uno dei personaggi principali: Samvise il cuor di leone. “Voglio che mi parli ancora di Sam, papà. Perché nel racconto hanno messo così poco delle sue chiacchiere? È quel che mi piace, mi fa ridere. E Frodo non avrebbe fatto molta strada se non avesse avuto Sam, nevvero papà?””.

“Ora, signor Frodo”, disse Sam, “non dovreste prenderla a ridere. Io parlavo seriamente”.

“Anch’io”, rispose Frodo. (iv)

Frodo lo riconosce: non avrebbe fatto molto senza Sam. Non perché questo possedesse forza o saggezza superiori alle sue, è altro ciò di cui Frodo ha bisogno, ed è proprio nel rapporto con l’amico che lo trova: amore al suo destino. Un amore, un’amicizia, che non ammette di essere lasciata indietro, anche quando questo sembrerebbe ragionevole:

“Ora farò il mio dovere”, disse. “Una cosa perlomeno è palese: la malvagità dell’Anello sta incominciando ad intaccare persino l’integrità della Compagnia; è indispensabile che l’Anello si allontani da loro, prima che la situazione peggiori. Partirò da solo. Di alcuni non mi posso fidare, e agli altri voglio troppo bene […]. Partirò da solo, immediatamente”.

[…]

“Arrivo, signor Frodo! Arrivo!”, urlò Sam, tuffandosi dall’argine e cercando di afferrare la sponda dell’imbarcazione che si allontanava: la mancò per un braccio.

[…]

“Forza, ragazzo mio!” disse Frodo. “Afferrati alla mia mano”.

“Salvatemi, signor Frodo!”, disse Sam boccheggiante.

“Affogo. Non vedo la vostra mano”.

[…]

“Di tutte le maledette seccature, la peggiore sei tu, Sam!”, disse.

“Oh, signor Frodo, siete cattivo!”, disse Sam rabbrividendo. “Siete cattivo, a cercare di andarvene senza di me, e tutto il resto. Se non avessi indovinato, ora dove sareste?”.

“In viaggio, sano e salvo”.

“Sano e salvo!”, esclamò Sam. “Solo e senza il mio aiuto? Non avrei sopportato il colpo. Sarebbe stata la mia morte”.

“Venire con me sarebbe la tua morte, Sam”, disse Frodo, “ed io non potrei sopportarlo”.

“Una morte meno certa, però”, rispose Sam.

“Ma io sto andando a Mordor”.

“Lo so bene, signor Frodo. È naturale che vi andiate. Ed io vi accompagno”.

“Ora, Sam”, disse Frodo, “non ostacolarmi! […] Devo andar via subito; è l’unico modo”.

“Naturalmente”, disse Sam. “Ma non da solo. Vengo anch’io, o non partirete neppure voi. Farò dei buchi in tutte le barche”.

Frodo rise. Un calore ed una felicità improvvisi gli penetrarono in cuore.

[…]

“Così hai rovinato tutto il mio bel piano!”, disse Frodo. “È inutile cercare di sfuggirti. Ma ne sono felice, Sam. Non sai quanto. Andiamo! È chiaro che il destino vuole che viaggiamo insieme! […]”.

[…]

E così Frodo e Sam partirono insieme per l’ultima tappa della Missione.(v)

Sembrerebbe assennato dal punto di vista di Frodo abbandonare i suoi amici per non caricarli di un fardello che è solo suo. Ma l’amicizia di Sam è autentica: egli non è amico solo nei momenti facili, intuisce che Frodo avrà tanto bisogno di lui quanto più avanti procederà nel suo cammino.

Egli infatti lo sosterrà fisicamente e spiritualmente fino all’ultimo, arrivando a caricarlo sulle proprie spalle nell’ultimo faticoso tratto, e, appena la Missione è compiuta, Frodo dice:

[…] Sono felice che tua sia qui con me. Qui, alla fine di ogni cosa, Sam.”(vi)

Ancora una volta, umilmente, riconosce di aver avuto bisogno della compagnia di Sam, che non è l’unica del Il Signore degli Anelli, romanzo letteralmente costellato di compagnie.

La compagnia, l’amicizia è importantissima perché “genera” l’eroe: lo risolleva dalla sua situazione, dalla sua debolezza, dal suo limite, è insegnamento, correzione.

Frodo è “generato” da Gandalf nella Pietà, una delle caratteristiche degli eroi tolkieniani: rispetto ad ogni altro eroe incontrato prima, la loro posizione, a cominciare da quella verso l’altro, verso il nemico, è differente.

Al racconto di come Bilbo non avesse ucciso Gollum (vii) al loro primo incontro Frodo, chiamando “peccato” l’esitazione dello zio ad uccidere, suggerisce che sarebbe stato meglio se avesse ammazzato quell’essere:

“Peccato? Ma fu la Pietà a fermargli la mano. Pietà e Misericordia: egli non volle colpire senza necessità. E fu ben ricompensato di questo suo gesto, Frodo. Stai pur certo che se è stato grandemente risparmiato dal male, riuscendo infine a scappare ed a trarsi in salvo, è proprio perché all’inizio del suo possesso dell’Anello vi era stato un atto di Pietà”. (viii)

La Pietà gli è insegnata da Gandalf perché lui per primo è umile, pur essendo un Saggio, e dalla sua umiltà di fronte alla vita nasce la sua posizione:

“[…] Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze. […]” (ix)

Gandalf riconosce di non essere lui a dare la vita, e di conseguenza di non essere il più indicato a decidere a chi debba essere tolta.

È una posizione che Frodo apprende e fa propria in primo luogo nei confronti dello stesso Gollum quando, più avanti nella trama, diverrà la sua guida. Frodo stesso genera poi Sam nella pietà vero Gollum.

Frodo è perciò l’eroe umile, che riconosce i propri limiti e il bisogno di amare una compagnia che a sua volta lo sostiene, lo ama e lo genera nell’amore per gli altri, anche per chi apparentemente non lo meriterebbe.

Anche Aljòša, fratello di Ivàn, ha una rapporto di compagnia che lo genera all’amore: è l’amicizia con lo starets Zosima, suo padre spirituale.

Questi chiede un gesto di obbedienza al giovane monaco novizio che, piegandosi ad una necessità misteriosa ai suoi occhi, umilmente accetta:

– Che hai? Il tuo posto per ora non è qui. Ti benedico per una grande obbedienza da compiere nel mondo. Avrai da pellegrinare a lungo. E dovrai prendere moglie, dovrai. Bisogna che tu sopporti ogni cosa, finché non tornerai. E ci sarà molto da fare. Ma non dubito di te, ed è per ciò che ti mando. […] –(x)

Se Aljòša accetta è per l’amore che lo lega allo starets, amore che ha appreso dallo starets stesso.

– […] Avrai molti avversari, ma anche i tuoi nemici ti ameranno. La vita ti porterà molte sventure, ma tu ne sarai felice e benedirai la vita, e la farai benedire anche dagli altri, il che è l’essenziale. […] –(xi)

Questo amore che Zosima insegna nasce, come per Gandalf, dalla coscienza prima di non essere padrone delle propria vita e del proprio destino. Per lo starets, un monaco, è chiaro chi sia il Padrone della vita, ed è a modello del Suo amore che egli ama gli altri:

Del resto, non c’è, e non ci può essere, su tutta la terra un peccato che Dio non perdoni […]. Né l’uomo può commettere un peccato così grande che esaurisca l’infinito amore di Dio. Può forse esserci un peccato che sorpassi il divino amore? […] Credi che Dio ti ama come tu non ne hai nemmeno idea, e ti ama anche col tuo peccato e nel tuo peccato. […] Se ti penti, vuol dire che ami. Ma, se ami, sei già di Dio… Con l’amore si riscatta tutto, tutto si salva. (xii)

Aljòša è proprio lo specchio di questo amore divino che abbraccia tutti nonostante i limiti umani, un amore che tutti gli altri personaggi del romanzo riconoscono in lui.

Anche suo padre, figura maggiormente abietta di tutto il romanzo, deve ammetterlo:

…sento bene che tu sei sulla terra l’unico che non mi abbia condannato, caro ragazzo mio; questo io lo sento, sai, non posso mica non sentirlo! (xiii)

Un rapporto d’amicizia, d’amore, che salvano davvero l’Uomo mettendolo in umile rapporto col proprio destino anziché in orgoglioso contrasto.

Un altro esempio lampante è il rapporto fra Sònja e Raskòlnikov, raccontato nel celebre romanzo Delitto e Castigo.

Raskòlnikov ha compiuto un assassinio, ha ucciso una vecchia usuraia per rubarle i soldi, e incontra inaspettatamente Sònja, una “peccatrice”, costretta dalla critica situazione finanziaria familiare alla prostituzione.

Pur conducendo una vita squallida, immersa nelle brutture del mondo, Sonja conserva la speranza e una salda fede in Dio. Questa fede e il suo amore ella li testimonierà a Raskòlnikov credendo possibile una sua redenzione nonostante egli si sia macchiato di un delitto insensato.

Spinto da lei a pentirsi della sua colpa, Raskòlnikov accetterà i lavori forzati in Siberia perché scopre la libertà dell’essere amato nonostante i propri limiti, oltre la sua colpa, vere catene che lo teneva prigioniero.

Al commissariato Raskòlnikov esita, ma Sònja è accanto a lui, fino all’ultimo, come Sam per Frodo:

Uscì dalla stanza barcollando. La testa gli girava. Si sentiva le gambe intorpidite. Cominciò a scendere le scale appoggiandosi al muto con la mano destra. Gli sembrò che un portiere, che si recava all’ufficio di polizia con un libretto in mano, l’avesse urtato, che un cane abbaiasse in modo assordante al piano inferiore, e che una donna gli tirasse un matterello, gridando. Scesa la scala, uscì nel cortile. In piedi, poco lontano dall’ingresso, Sònja, pallida come una morta, lo guardava con una strana espressione negli occhi. Le si fermò dinnanzi. Ella batté le palme. Le si dipinse in volto una disperazione profonda. Un sorriso smarrito, stanco affiorò sulle labbra di lui. Tutt’a un tratto egli si voltò e risalì all’ufficio di polizia.

[…]

Raskòlnikov respinse il bicchiere con la mano, e lentamente, fermandosi di tanto in tanto, ma con voce chiara, disse:

– Io ho ucciso la vecchia vedova dell’impiegato e sua sorella Lizavèta e l’ho derubata. (xiv)

Scrive Tolkien, in un pensiero che è decisamente il sunto di tutto quanto si è detto sull’eroe:

È l’eroismo dell’obbedienza e dell’amore, non quello dell’orgoglio e dell’ostinazione, a essere il più alto e il più commovente… (xv)

 

Note

(i): J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli - La Compagnia dell’Anello – pagg. 96-98 (ed. Rusconi)

(ii): J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion - Ainulindalë – pagg. 15, 18 (ed. Bompiani)

(iii): J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli - La Compagnia dell’Anello – pag. 341 (ed. Rusconi)

(iv): J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli - Le due Torri – pag. 860 (ed. Rusconi)

(v): J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli - La Compagnia dell’Anello – pagg. 496, 501-502 (ed. Rusconi)

(vi): J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli - Il Ritorno del Re – pag. 1131 (ed. Rusconi)

(vii): Bilbo, protagonista de Lo hobbit, è lo zio di Frodo, e proprio ne Lo hobbit incontra Gollum, precedente detentore dell’Anello di Sauron, creatura totalmente corrotta da esso.

(viii): J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli - La Compagnia dell’Anello – pag. 94 (ed. Rusconi)

(ix): J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli - La Compagnia dell’Anello – pag. 94 (ed. Rusconi)

(x): F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov – pag. 83 (i grandi libri ed. Garzanti)

(xi): F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov – pag. 303 (i grandi libri ed. Garzanti)

(xii): F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov – pag. 56 (i grandi libri ed. Garzanti)

(xiii): F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov – pag. 26 (i grandi libri ed. Garzanti)

(xiv): F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo – pag. 622 (ed. Famiglia Cristiana)

(xv): J.R.R. Tolkien, Albero e Foglia - Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm – pag. 225 (ed. Rusconi )

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