Hugo, Calvino, Tolkien: analogie e differenze
di Andmetien

Dedicato a Dario Senesi: la Stella che illumina il mio cuore

ntroduzione: un po' di storia

Nel 1914 era iniziata la lunga, crudele guerra civile europea. Un'inutile strage voluta dai vecchi nazionalismi e dai nuovi imperialismi, un conflitto sanguinoso che, per trent'anni, avrebbe sconvolto il vecchio continente, seminando morte e distruzione di uomini e valori.

Nel 1915 J.R.R. Tolkien venne assegnato al fronte della Somme, sotto il fuoco delle mitragliatrici: Bisogna sperimentare personalmente i tempi bui della guerra per capirne tutta l'angoscia scriverà anni dopo ne “Il Signore degli Anelli”.

Il fango, il sangue, l'agonia dei feriti, i volti stravolti dei caduti, il coraggio e lo spirito di sacrificio dei sodati più semplici: tutto questo entrò indelebilmente nella vita di Tolkien, nella sua coscienza attenta. La necessità dell'eroismo e della solidarietà modellarono profondamente la sua visione del mondo, un mondo corrotto dalla negatività del potere che, in quel periodo storico, ebbe la massima espressione in un imperialismo scellerato. Imperialismo come forma di sottomissione politica ed economica dei paesi più deboli, “I grandi assorbono i piccoli e il mondo diventerà piatto e noioso“ .

Italo Calvino , qualche anno dopo, venne travolto dagli eventi del tempo partecipando, sia pur da ribelle partigiano, al secondo conflitto mondiale scoppiato, anch'esso, per il desiderio di potenza che gli stati europei, e la stessa Italia con la conquista di Libia ed Etiopia, covavano ancora, nonostante gli orrori della prima grande guerra. Il grande desiderio dell'uomo, il potere, interessò dunque inevitabilmente anche la produzione letteraria di questo autore.

Lo stesso Victor Hugo, pur non avendo partecipato a nessuna delle due guerre mondiali, visse in quell'Ottocento assetato di grandezza e nazionalismi che costituiranno le premesse per lo scoppio delle Grande guerra. Nato durante l'impero di Napoleone I, Hugo vide l'imperialismo francese raggiungere la sua massima espansione e, inutilmente, si oppose nel 1851 ai progetti dittatoriali di Napoleone III, progetti che costituivano una grande minaccia per la giovane repubblica. La sua ostinatezza gli costò 19 anni di esilio. Questi eventi segnarono profondamente la sua visione del mondo che prenderà poi forma ne “I Miserabili”, un romanzo dove il potere spietato e dissennato schiaccia i deboli e li perseguita fino alla morte (come ci dimostra il tragico destino di Fantine) e porta coloro che lo detengono alla follia (Javert).

 

Un anello per domarli tutti… il Potere che distrugge

“Il Signore degli Anelli” ben si presta a diversi piani di lettura. In questa occasione, come già anticipato, ci concentreremo su quell'aspetto dell'opera che potremmo definire una sorta di allegoria del potere: come viene percepito dallo scrittore? Cosa trapela dalle righe? Quali e quante analogie tra il Professore di Oxford e due altri grandi artisti della penna, Victor Hugo e Italo Calvino?

  Chiunque abbia letto il capolavoro tolkieniano avrà percepito la maliziosa duplicità del POTERE: il potere che domina l'anima, logorandola, portando l'uomo, nello specifico Gollum, Saruman, e Sauron, alla sua stessa distruzione e il potere che, attraverso il rifiuto, viene dominato da uomini saggi e giusti, quali Gandalf e Aragorn.

Ne “Il Visconte dimezzato” Calvino evidenzia tutta la malvagità e la spietatezza del potere che taglia in due “con un colpo di cannonata” la personalità del protagonista, il visconte di Medrano, proprio come è diviso in un eterno conflitto il personaggio tolkieniano di Gollum, laddove questo rappresenta la brutalità e la sete maniacale del potere, opposto a Smeagol, la parte originaria e buona che, per Tolkien, alla nascita è in ognuno di noi.

Mentre la metà cattiva del visconte compie scempi e stragi con quell'arroganza, ma anche quella solitudine, che il potere del suo titolo gli conferiscono, l'altra metà, quella buona, cerca di porre rimedio ai malefici della gemella.

Ne “Il Cavaliere inesistente”, Calvino porta la sua allegoria a un nuovo livello, mostrandoci il potere come l'espressione più forte ed evidente di una debolezza interiore che, nel caso del Cavaliere Agilulfo, sta proprio nel non esistere, nel suo esser vuoto sotto l'imponente armatura. Un “Nulla” che, fuor di metafora, simboleggia la mancanza di valori e di una profondità etica nel momento in cui l'uomo soggiace al fascino del potere.

L'inesistenza fisica che caratterizza questo personaggio sembra richiamare alla mente le oscure figure tolkieniane dei Nazgul. Difatti, se per la personalità possono apparire come figure completamente opposte, sotto un altro punto di vista sono invece molto simili: l'assenza corporea simboleggia una debolezza, un vuoto nello Spirito. La bramosia senza scrupoli per un Potere assoluto e forte che indusse i Nove Re degli uomini ad accettare gli anelli magici di Sauron, deriva da un'antica tentazione umana: assomigliare a Dio, avere i suoi medesimi poteri, comandare il mondo. Per questa bramosia essi sono ridotti a spettri, terribili “scure evanescenze” sotto i pesanti mantelli neri, come fragile ed evanescente fu la loro volontà di Uomini, troppo facilmente sedotta e abbindolata da un'illusoria tentazione.

Allo stesso modo il Cavaliere inesistente Agilulfo è vuoto sotto la sua pesante armatura come vuota è la sua Volontà, costruita sulle fondamenta dell'onore, tesa solo al raggiungimento dell'ottusa e labile immagine di cavaliere perfetto e impeccabile che agisce e combatte unicamente al sevizio delle cause d'onore. Un “perfetto robot di un'età cavalleresca” in cui l'ideale risiede nell'arte di armeggiare inappuntabilmente. Tutta la sua vita è tesa a questo scopo: Sofornia, la presunta figlia del Re di Scozia, viene da lui salvata dalla violenza di un seduttore, perché è compito del cavaliere difendere la fragile verginità femminile; quando però corre voce che la donna sia madre di Torrismondo, ecco il cavaliere correre alla ricerca della verginità della donna, verginità su cui poggia tutto l'onore dell'uomo d'armi che l'ha salvata. Ma prima che l'innocenza di Sofornia venga scoperta il cavaliere si uccide, perché crede ormai compromessa l'integrità del proprio onore.

Con “Il Barone Rampante”, infine, si giunge al rifiuto del potere e, in un certo senso, della società moderna, ipocrita, decadente, e priva di moralità. Quest'opera esprime, come “Il Signore degli Anelli”, il desiderio di tornare a una società in cui il perduto rapporto tra uomo e natura venga rifondato. Tolkien stesso criticava le grandi trasformazioni portate dall'industrializzazione agli inizi del ‘900 e il conseguente abbattimento delle società tradizionali, profondi cambiamenti che, secondo il Professore di Oxford, avevano rinchiuso l'uomo in una tenaglia: “da una parte lo statalismo vampirizzatore e dall'altro l'individualismo esasperato nel nome del liberismo e del principio della proprietà individuale.”

Ancora, nella prima parte de “I Miserabili” Victor Hugo scosso dall'ingiustizia e dal dolore che accomunano gli umili e gli innocenti, sembra domandarsi: “Perché?”. L'autore oscilla tra il terribile dubbio di credere ad un disegno cosmico di Dio o piuttosto al potere del Caso.

Anche nella Trilogia di Tolkien troviamo l'idea del Caso che talvolta sconvolge l'armonia della Terra. Ma tra i due artisti c'è una profonda differenza.

Ne “Il Signore degli Anelli”, gli umili, o meglio, i “piccoli”, nonostante vengano travolti da avvenimenti che sembrano essere molto più grandi di loro, diventano degli Eroi. Quando Frodo, afflitto, dice che avrebbe voluto che l'anello non fosse mai giunto nelle sue mani, Gandalf gli risponde: ”Non sta a noi scegliere, tutto quello che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è stato dato”. Ciò significa che c'è qualcosa aldilà della Volontà dell'Uomo, ma che comunque bisogna agire con saggezza per il tempo che ci è stato destinato. Non è forse il Caso, e come Gandalf fa notare a Frodo in Moria, un Caso “rassicurante” , ad aver voluto che l'Anello finisse nelle mani di Bilbo? E non è forse sempre il Caso a portare alla distruzione l'Anello nelle voragini infuocate del Monte Fato, quando Gollum stacca il dito a Frodo con un morso e nella foga del momento si sbilancia cadendo nel cuore del vulcano? Quindi, nonostante il destino del mondo possa essere forgiato anche dal coraggio dei più piccoli, gli eventi seguono un disegno scritto dalla mano imprevedibile del Caso.

La differenza sta proprio qui. Mentre il piccolo Frodo riesce a distruggere il brutale potere dell'Anello, pur non riuscendo a eliminare ogni traccia del Male, la sorte dei Miserabili è sempre tragica, essi sono sempre schiacciati dal potere crudele della società, incarnato dal personaggio di Javert.

Il romanzo, infatti, si sviluppa attorno a due figure: quella di Val Jean, una buona anima abbruttita dai lavori forzati ai quali la società lo obbliga per aver rubato un misero pezzo di pane per i suoi nipoti affamati, e quella di Javert, un gendarme che, corrotto dal fascino della propria divisa, perseguirà Val Jean per tutta la storia. Javert con la vista annebbiata dallo charme del potere, non vede più la linea che separa il Bene dal Male. Cieco, arriverà ad arrestare il suo "nemico", ma sarà costretto a lasciarlo libero perché suo debitore: Val Jean aveva salvato la vita del gendarme quando questi fu catturato dai rivoluzionari. Ma questa riconoscenza, questa volontà di ricompensare una favore ricevuto, se possibile, mina ulteriormente il suo animo, andando contro una natura ormai divenuta cattiva perché sedotta e, allo stesso tempo, divorata dal pericoloso fascino del potere. Javert, giunto alla follia, si uccide, così come Gollum, durante l'ultimo disperato tentativo di raggiungere l'Anello.

 

Un anello per domarli tutti… il rifiuto del Potere

Il Barone Rampante” di Italo Calvino: ecco un esempio della ribellione al potere. Una ribellione espressa chiaramente attraverso il personaggio di Cosimo che, inevitabilmente, sembra richiamare quello di Aragorn, ne “Il Signore degli Anelli” e la figura di Val Jean nelle vesti di sindaco, ne “I miserabili”.

Se difatti Cosimo fugge da un'aristocrazia vuota, ipocrita e piena di stupide formalità per andare a fondare, come avrebbe voluto, uno stato ideale e democratico sugli alberi, lo stesso Val Jean una volta diventato sindaco cerca di tener lontani da sè non solo la ricchezza, che investe in strutture d'ausilio per i più poveri, ma anche lo stesso potere di funzionario, svolgendo unicamente i compiti burocratici strettamente necessari, e sfruttando la sua posizione solo come mezzo per aiutare i più deboli che, come lui in precedenza, soffrono dell'oppressione che i più forti esercitano su di loro.

Ma più di tutti Cosimo sembra proprio assomigliare ad Aragorn, che scelse l'esilio, allontanandosi dal mondo degli uomini ormai in decadenza, corrotti dal potere che Sauron aveva offerto ai loro grandi Re con i nove anelli. Da quel giorno la forza degli uomini venne meno ed essi caddero sotto l'ombra di Mordor. Solo Minas Tirith rimase l'unico irriducibile avamposto degli elfi e degli umani per la difesa della libertà dei popoli della Terra di Mezzo.

Sia la storia de "Il Barone Rampante" che la storia de "Il Signore degli Anelli" ruotano attorno a una libertà da conquistare o da riconquistare: Cosimo fugge dall'autorità di suo padre, che simbolicamente rappresenta la vecchia nobiltà in declino, per cercare di fondare uno stato democratico sugli alberi, elaborando addirittura una vera e propria Costituzione. Allo stesso modo Aragorn si distacca da un mondo decaduto nei suoi valori e nella sua grandezza, scegliendo l'esilio come forma di rifiuto e, nel contempo, via attraverso la quale cercare quell'integrità morale che, un giorno, lo porterà a diventare un Re saggio e giusto.

 

Tolkien e Calvino: l'allegoria come realtà

Solo attraverso fantasia e mito, può trasparire riflesso un minuscolo frammento della vera luce”, diceva il Professore di Oxford.

Calvino sembra dargli ragione, scegliendo lo stile epico per una trilogia che tratta l'allegoria dell'essere uomo. La fantasia, capacità creativa del fanciullo, diventa per questi scrittori una metafora per parlare della realtà e dell'esistenza.

Ne “Il Visconte Dimezzato” Calvino proietta i propri dubbi morali e ideologici sul protagonista, il visconte di Medardo, diviso fra due verità: egoismo ed altruismo, logica e sentimento, malvagità e bontà angelica, potere e non potere. A differenza di Tolkien, Calvino non ricostruisce un intero cosmo, dalla geografia alle lingue per giustificare e rendere verosimile la storia che vuole raccontare, ma attua comunque uno spostamento dell'ambientazione della vicenda alla fine del 1600, durante le guerre austro-turche, al fine di costruire un'astrazione concettuale che gli permetta di affrontare la sua indagine filosofica. “Il Visconte dimezzato” è stata giudicata da alcuni critici come una “pensosa allegoria” della condizione dell'uomo, sempre “alienato”, mutilato, impossibilitato a raggiungere l'integrità, la completezza. Si potrebbe anche dire che il simbolismo di questo racconto consiste nel fatto che ciascuno presenta agli altri due facce autonome e diverse, riprendendo il motivo pirandelliano dello sdoppiamento della personalità, ma potrebbe anche significare l'incompletezza degli uomini in se stessi. In questo senso è significativa l'osservazione dell'autore quando,dopo varie disavventure, le due metà del barone si ricompongono in unità: ”Forse ci si aspettava che, tornato intero il visconte, s'aprisse un'epoca di felicità meravigliosa: ma è chiaro che non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo”.

L'uomo di Calvino, così come emerge dalla trilogia, ha in sé la saggezza dell'eroe della favola e la problematicità inquieta e ricca di tensione del personaggio. "Il Visconte dimezzato" è una favola cavalleresca, ma anche l'espressione dell'uomo moderno lacerato dalla divisione del lavoro della società capitalista, causa della fatale menomazione della sua umanità.

E' stato detto anche che l'autore si identifica nel personaggio dimezzato per eccellenza, il visconte Medardo di Terralba, spaccato in due da una cannonata turca durante la guerra tra Austria e Turchia. Ma non solo. Si riconosce e, contemporaneamente si nasconde, facendosi raccontare da un altro personaggio ovvero il giovane narratore nipote del visconte.

La storia comincia dalle ultime fasi di una guerra, ma dato che la voce narrante è quella del nipote, per logica questi, non poteva aver seguito lo zio in battaglia, difatti lo troviamo a Terralba ad attendere l'arrivo del congiunto, più precisamente della sua metà malvagia, il “Gramo”. Si può, dunque, pensare che anche dietro al nipote ci sia Calvino stesso, che cerca di vedersi allo specchio dopo il ritorno da un'esperienza di lotta che lo aveva dimezzato: la guerra partigiana ne aveva senza dubbio incrinato l'ideologia rassicurante in un antifascismo naturale.

L'essere dimezzato si riferisce soprattutto alla spaccatura tra Io politico e Io naturale, spaccatura che assume poi un significante più generale. Il “Gramo” sembra riflettersi nel personaggio tolkieniano di Gollum, laddove entrambi rappresentano il Male e il Malvagio scaturiti dalla sete di un potere spietato che prevarica la morale: la metà cattiva del visconte attraverso il potere , “taglia” letteralmente un mondo a sua immagine , esprimendo la propria incompletezza

La cattiveria, rivolta in primo luogo proprio verso i propri cari, suggerisce il senso di una necessaria distruzione degli affetti, anche ideologici, per cogliere il nocciolo del loro essere contraddittori. L'invito è quindi di diventare la metà di noi stessi per capire cose “al di là della comune intelligenza dei cervelli interi”. Bisogna quindi passare attraverso il Bene e il Male di noi stessi, affinché l'esperienza dell'una e dell'altra metà fuse insieme possa poi offrire qualche garanzia di saggezza nell'uso del potere.

Tolkien, invece, pur raggiungendo il medesimo traguardo, segue un percorso diverso. Ci mostra che l'uomo, prima di servirsi del potere, deve avere una profonda preparazione spirituale nonché un'alta moralità, altrimenti rischia di soccombere al suo fascino e a quell'inquietudine che caratterizza chi detiene il potere e ha paura di perderlo. Un'inquietudine che troppo spesso conduce alla solitudine e alla follia. Aragorn, l'erede di Gondor, prima di diventare Re, vive in esilio, mette la propria vita a servizio del Bene, prima combattendo l'avanzata delle tenebre, poi unendosi alla Compagnia dell'Anello e alla sua disperata impresa contro l'oscuro signore Sauron. Solo nel terzo libro, “Il ritorno del Re”, quando ormai la sua profonda eticità è stata più volte messa alla prova, cede, anche se per poco, al potere, usando il Palantir, l'antica pietra veggente. Ma l'occhio di Sauron che Aragorn riesce a guardare attraverso l'arcano potere, non corrompe il suo cuore, ed egli si mostra al suo nemico come una minaccia al suo oscuro volere: l'erede di Isildur è tornato.

Aragorn passa quindi anche attraverso il Male per raggiungere la completa saggezza che gli permetterà di diventare un Re giusto, ma lo fa soltanto dopo un lungo percorso dedito al Bene che gli ha permesso di costruirsi una forte integrità etica.

 

Tolkien e Calvino: l'Amore contro l'oscuro fascino del Potere

Le due metà del visconte di Medardo, il “Buono” e il “Gramo”, concentrano le loro energie in direzioni opposte ma entrambe hanno in mente lo stesso oggetto del desiderio, vale a dire prevaricare sulla sua parte gemella. Entrambi sono eccessivi e non hanno un giusto equilibrio. Tale equilibrio verrà ritrovato solo quando il visconte tornerà intero, dopo il confronto-duello tra le due metà. È comunque e sempre l'Amore che costituisce la completezza dell'uomo; difatti grazie al sentimento di amore che unisce il Gramo al Buono nei confronti della pastorella Pamela, il visconte ritrova infine la sua integrità.

ragorn stesso è mosso da un desiderio di Amore, ma solo alla fine del libro lo veniamo a scoprire, quando cerca di convincere i suoi compagni a rimanere ancora per un po' a Gondor dicendo: ” Ogni cosa infine deve terminare, ma vorrei che attendeste ancora per qualche tempo: la fine di tutto ciò che abbiamo fatto insieme non è ancora giunta. Si avvicina un giorno che ho aspettato con ansia durante tutti gli anni della mia vita d'uomo, e quando avverrà voglio che tutti i miei amici mi siano accanto”. Ciò a cui sta alludendo Aragorn, in questo discorso estratto dalle ultime pagine del racconto, è la tanto attesa unione con Arwen, principessa elfica che sceglie di rinunciare alla sua immortalità per amore di un uomo mortale. Solo alla fine, dunque, capiamo che la molla che ha spinto Aragorn per tutta la storia, attraverso pericolose e spesso disperate imprese, non era altro che il puro e forte desiderio di coronare il suo sogno d'amore.



 

           
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