Sulla Magia nella Terra di Mezzo
di Andrea Napolitano

a magia è un fattore indispensabile in una narrazione fantasy. Essa è l'elemento primario, l'ingrediente chiave, che permette a questo tipo di letteratura di sganciarsi dalla realtà e proporre una visione alternativa della realtà da un'angolatura diversa da quella abituale, quotidiana, ordinaria.
È altrettanto vero, però, che l'atteggiamento del narratore e dei personaggi nei confronti della magia non è altrettanto univoco. Si può dare un mondo in cui la magia è presenza accettata e scontata, e magari dove ogni personaggio è in grado di praticarla. In altre circostanze, invece, la magia può stupire, rivelarsi come un fattore estraneo al mondo della narrazione, seppure, indispensabile al dispiegarsi della storia e delle avventure. Anche in tal caso, tuttavia, c'è spesso anche un solo personaggio che si trova perfettamente a suo agio con le arti magiche, ossia quello che le pratica personalmente.
Il trattamento della magia in The Lord of the Rings si caratterizza per diversi fattori, alcuni afferenti alla tradizionale concezione del magico, altri che invece presentano sostanziosi ritocchi ideologici da parte dell'autore. Innanzi tutto, anche la magia si inquadra nello schema dualistico caratteristico del romanzo, scindendosi in Magia Bianca e Magia Nera. La tensione tra questi due opposti contribuisce ulteriormente alla strutturazione della grande lotta tra Bene e Male che è centrale alla trama dell'opera. Tuttavia, la magia descritta da Tolkien è una magia di più "delicata" concezione. Si lega maggiormente ad una visione mitica dei poteri naturali, amplificati in determinate situazioni o in determinati personaggi fino ad assumere connotati meravigliosi (ma pur sempre spiegabili con leggi determinate). E in effetti la magia, nella Terra di Mezzo, è strettamente associata alla Natura e alle sue manifestazioni.
Sappiamo che presso tali culture la magia era spesso anche, o soprattutto, un modo di interpretare tali fenomeni, e così propiziarseli o difendersi da essi. Per tale motivo, essa attribuiva vita e volontà anche alle pietre, ai vegetali o ai fenomeni atmosferici.
Tale concezione della magia permette poi, a livello della trama e della sua strutturazione, una maggiore partecipazione da parte di quello che costituirebbe altrimenti solo uno "sfondo": rocce, alberi, animali, paesaggi. Dietro l'eroe "intelligente" si muove invece tutto un coro di vite e di vitalità, nonché di volontà, il cui ruolo è tutt'altro che da sottovalutare. È lo stesso principio, in fondo, che permette all'Anello di avere un peso così preponderante in tutto il romanzo.
Il dualismo caratteristico del romanzo si riproduce anche a livello dell'interpretazione dell'evento magico da parte dei personaggi: infatti The Lord of the Rings appartiene a quella schiera di opere in cui la magia è ovvia per certi personaggi e oscura per altri, con la differenza che, dopo un'iniziale sorpresa e/o meraviglia, essa viene immediatamente inglobata negli schemi mentali anche dei più ingenui o increduli, proprio perché il suo stretto rapporto con l'originario, il mitico e i fenomeni naturali, non la rende del tutto estranea e ostica.
Gli stessi personaggi legati al magico stentano ad attribuirgli tale definizione, ritenendola un'espressione quasi fuorviante, un'etichetta creata per gli scettici, per coloro che sono estranei ai poteri profondi della vita. Quando utilizzano il termine "magico" o "magia", lo fanno dandoci la sensazione di utilizzare solo un termine di comodo. In tal modo gran parte del fascino classico della magia, intesa come potere che si oppone in essenza e in risultati alla realtà ordinaria, sembra andare perduto. In realtà, però, ciò va a tutto vantaggio di un'atmosfera, decisamente più "intrigante", in cui magico e ordinario finiscono per compenetrarsi al punto che è difficile distinguere l'uno dall'altro.
Tolkien parlò spesso, nelle sue lettere, di magia e arti magiche. Ed egli stesso fece una distinzione sommaria tra due tipi di "magie": una inerente alle figure positive del romanzo e un'altra che egli chiama Machinery, più strettamente identificata con la vera e propria Magia (Magic), che è in effetti prerogativa di quella che chiamiamo Magia Nera. Di contro, per Tolkien la Magia Bianca, la magia esercitata dai "buoni", è da considerarsi una forma d'Arte: ".Arte, liberata dai molti dei suoi limiti umani: molto meno faticosa, più veloce, più completa [.]."
In un'altra lettera, l'autore chiama i due tipi di magia coi termini classici di magia e goeteia, ossia negromanzia, introducendo però l'idea che tale netta distinzione non sia valida a priori, perché in realtà la magia è buona o cattiva a seconda dell'uso che se ne fa. Tuttavia, ribadisce che esiste un differente uso di questo potere soprannaturale tra i personaggi di The Lord of the Rings: da una parte, la "dominazione di volontà libere" della negromanzia, la quale utilizza spesso dei trucchi, degli inganni, per raggiungere i suoi malefici scopi; dall'altra, gli "scopi benefici" della magia buona, i cui effetti sono "completamente artistici e non tesi all'inganno", effetti la cui distanza dalla realtà è la stessa che intercorre tra un'opera d'arte e la realtà stessa.
Interessante è anche notare che per il nostro autore i poteri magici, nella sua storia, non si apprendono grazie ad una tradizione antica, né si possono acquisire tramite incantesimi che tutti possono recitare: la magia è ".un potere interno non posseduto o ottenibile dagli Uomini in quanto tali." Da ciò che si evince dalle lettere, pare che per Tolkien "il motivo basilare della magia" fosse solo ".oltre a ogni considerazione filosofica di come funzionerebbe- . l'immediatezza: velocità, riduzione di lavoro, e riduzione anche al minimo (o a zero) delle differenze tra l'idea o il desiderio e il risultato o l'effetto.", il che altro non è che il "nocciolo" del pensiero magico antropologicamente analizzato: l'immediata realizzazione di un desiderio.
Vediamo quindi più da vicino come Magia Bianca e Nera si applichino veramente al tessuto del romanzo.

La Magia Bianca

La Magia Bianca è quella esercitata dalla fazione del Bene, nella fattispecie Gandalf, gli Elfi e Tom Bombadil. Essa appartiene all'ambito della Luce, che costituisce uno degli estremi mitici verso cui la narrazione oscilla. È una magia funzionale alla creazione, alla creatività, nonché alla preservazione di ciò che è buono e positivo.
Gandalf appare nelle vesti classiche del mago fattucchiere, e la sua figura ricorda molto quelle di Mago Merlino e di Odino padrone delle Rune. Ma, già all'inizio del romanzo, vediamo che la sua magia è assai lontana da quella del mago onnipotente. Egli appare come un bravo prestigiatore, abile nel fare girandole e fuochi d'artificio. Sul monte Caradhras sarà in grado di far scaturire fuoco da una fascina bagnata; e quando Frodo sarà salvato, grazie agli Elfi, dal secondo attacco dei Cavalieri Neri, travolti da un fiume in piena, aggiungerà "qualche tocco" alla magia elfica, facendo apparire le onde "in forma di cavalli bianchi con brillanti cavalieri bianchi." Tuttavia, egli non potrà opporsi alla violenta tempesta che respinge la Compagnia giù dallo stesso Monte Caradhras all'inizio del suo cammino. Nelle Grotte di Moria si orienta con difficoltà, dopo aver con altrettanta difficoltà scoperto la parola magica per entrarvi. Nello scontro con il Balrog, dispiegare il potere del suo bastone non gli garantisce l'immediata vittoria: lo scontro è fisicamente e psicologicamente pesante quanto un accanito torneo di cavalieri, e sappiamo già come questo scontro significherà, per il mago, una sorta di morte iniziatica. Anche dopo la sua "resurrezione" da Moria, nelle vesti del più potente Gandalf il Bianco, non lo vedremo mai compiere incantesimi strabilianti o magiche trasformazioni ad effetto.
Il suo potere appare semmai concentrato nella sua forte personalità e nella sua profonda saggezza, nonché nella sua conoscenza della storia e della tradizione della Terra di Mezzo, la conoscenza e il rispetto della natura, nonché nella sua capacità di leggere negli animi umani come in se stesso. La sua non è mai una magia in grado di cambiare il corso degli eventi, ma solo, con la buona volontà anche di altri personaggi, di aiutarli verso la migliore direzione. Tolkien stesso scrisse che il ruolo di Gandalf in quanto Wizard era quello di ". incoraggiare e guidare i poteri nativi dei Nemici di Sauron." Questo suo ruolo magico, in un certo senso "limitato", è apparentemente in netto contrasto con la vera natura di Gandalf, che è in realtà un Maia, una sorta di angelo inviato dagli dèi demiurghi della mitologia tolkieniana a proteggere la Terra di Mezzo. Egli dirà più volte di essere tanto potente da poter diventare perfino pericoloso (da qui il motivo per cui egli rifiuterà sempre di portare l'Unico). Evidentemente, la sua "limitatezza" è una scelta derivata dalla necessità di rispettare la libertà degli abitanti della Terra di Mezzo. Il Bene, come diceva anche Tolkien nelle sue lettere, è quello che non esercita imposizioni né pressioni, a differenza del Male, che impone invece legami e fardelli.
La magia degli Elfi è invece più che altro rappresentativa del potere della Natura al suo stato primordiale, raffinato però attraverso una lunga tradizione che ha reso la magia della Creazione Naturale una forma d'Arte, secondo la concezione di Tolkien. Gli Elfi sono tra gli esseri più vicini a Madre Natura, e serbano inoltre memoria di tutta la più antica tradizione della Terra di Mezzo. La lontananza dal resto della civiltà, nonché l'aura di mistero che si è creata intorno a loro, li rende esseri magici agli occhi degli ingenui Hobbit come a quelli di certi Uomini. Tuttavia loro per primi negano che esista una magia elfica, quasi schernendosi con un ".questo è ciò che il vostro popolo chiama magia." E, in effetti, neanche gli Elfi se ne escono con trucchi mirabolanti, da baraccone: la loro magia è una commistione di antiche conoscenze e compassata saggezza, che elargiscono solo a chi ritengono degno.
Moltissimi dei loro "oggetti magici", dai manti che rendono invisibili al lembas, possono trovare una spiegazione logica e naturale, o, al massimo, simbolica, pur mantenendo una innegabile qualità superiore ad ogni creazione umana. I manti rendono "invisibili" perché sono di un colore grigio cangiante che, in certe situazioni, aiuta la mimetica, più che l'invisibilità; il lembas è un pane molto sostanzioso, ma gli stessi Hobbit riconosceranno che non sazia lo stomaco come un vero pasto (sebbene sia sempre meglio che niente). Gli oggetti che trovano più difficoltà ad inserirsi in una logica razionale sono la Fiala di Galadriel e la scatola con i semi che la stessa regina degli Elfi dona a Sam. Tuttavia entrambi possono essere inquadrati in un ambito simbolico funzionale alla narrazione: la Fiala di Luce è infatti niente altro che la rappresentazione fisica e "concentrata" di quella luminosità che deve abbattere l'oscurità di Mordor, ove Luce e Buio hanno, ovviamente, palesi riferimenti al dualismo etico presente nel romanzo. I semi rappresentano invece il potere rigenerativo della Natura, che Sam dovrà sfruttare sulla devastata Contea.
Ancora più magici sono lo Specchio, anch'esso tuttavia assai "sminuito" rispetto ai poteri che avrebbe avuto in un racconto più tradizionale (le immagini che mostra sono relative, dipendono molto dalla natura di chi vi guarda dentro) e l'Anello di Galadriel, Nenya. Qui Tolkien si lascia trascinare dalla sua invenzione storico-leggendaria e indulge piacevolmente in quella magia che trova difficilmente spiegazione al di fuori di se stessa. Infatti, il valore simbolico attribuibile ai due oggetti non ne annulla il fascino magico. Eppure lo scopo di tanta meravigliosa presenza è, alla fine, solo quello di offrirci l'ultimo assaggio di un potere che sta per scomparire. Con il passaggio dalla Terza alla Quarta Era, infatti, si presagisce la scomparsa di gran parte della magia della Terra di Mezzo: gli Elfi e Gandalf emigrano, gli Anelli hanno perso il loro potere. Rimane solo il carisma degli eroi, come Aragorn, decisamente più uomini coraggiosi e saggi che maghi.
Tom Bombadil è, e questo suo essere è la fonte primaria della sua magia. Anche lui deve i suoi poteri al suo legame con il naturale-primordiale, espresso nel suo caso anche attraverso il linguaggio. A lui si attribuiscono più "formule magiche", seppur in forma di canzoni, che a Gandalf stesso. Il "limite" della magia di Tom e del suo mondo è quello di essere eminentemente legato alla Natura e al suo potere vegetativo, interpretato su un piano "mistico" e animistico, come accadeva nelle civiltà antiche. Tom, che ci appare come il sacerdote di questo antico potere, sancito dal simbolico matrimonio tra cielo e terra, è tuttavia assai ingenuo rispetto a tutto ciò che va oltre il semplice cerchio vegetativo della vita: ce lo dimostra il fatto che egli non solo è intoccabile dal potere dell'Anello, ma è anche incapace di percepirne il reale "peso" per il futuro della Terra di Mezzo.
L'atteggiamento dei personaggi più ordinari, quali gli Hobbit, nei confronti di tutta la Magia Bianca è di iniziale meraviglia ma finale accettazione. Questo perché la loro meraviglia non nasce dal credere che la magia sia impossibile, bensì dal ritenerla solo un fattore leggendario che loro non avevano mai avuto modo di sperimentare. Tuttavia, la loro mentalità non è chiusa alla possibilità della magia: basta loro "vederla" una sola volta per crederci definitivamente. Si crea così quell'oscillare tra magico e quotidiano che rende tipica e particolare la narrazione del romanzo.
Esiste anche una zona di confine, d'ombra, tra la netta definizione di Magia Bianca e quella altrettanto decisa di Magia Nera. Ne abbiamo già avuto sentore con le figure di Gandalf e Galadriel, quando essi rifiutano il possesso dell'Anello, sapendo bene, dal profondo della loro saggezza, come il Bianco possa facilmente rovesciarsi nel Nero, quando sia in gioco l'idea di un potere smisurato quale quello magico. È una piccola traccia d'inquietudine che Tolkien lascia lungo tutto il romanzo, in accordo con la già sottolineata idea che Bene e Male non siano poi due entità così nettamente separate.

La Magia Nera

La Magia Nera è quella che più immediatamente richiama l'idea di un esercizio con finalità d'interesse personale. "La forza che, nascosta, guida la magia è la sete di potere. [.] L'eterna ambizione dell'adepto delle Arti Nere consiste nell'acquistare potere supremo su tutto l'universo, e fare di se stesso un dio."
La Magia Nera elaborata in The Lord of the Rings non sfugge a questa definizione. Chiunque eserciti il potere del negromante lo fa perché vuole acquisire supremazia sugli altri, vuole mettersi un gradino (o forse anche più di uno) più in alto rispetto alla massa. Tale supremazia, finalizzata chiaramente ad un'idea di comando, di potere "politico", non si pone limiti morali: tutto si può fare pur di realizzare il sogno proibito. Se, da una parte, la supremazia appare quasi come una sete immotivata, tanto è fine a se stessa, dall'altra emerge altrettanto chiaramente il pensiero del nostro autore a riguardo: il potere di per sé è sempre fonte di corruzione e distruzione.
La distinzione tra Magia Bianca e Magia Nera si basa quindi esclusivamente sulle loro finalità, giacché, ribadisco con Tolkien, "Nessuna [ magia ] è, in questa favola, buona o cattiva (di per se), ma lo diventa solo per il motivo o lo scopo o l'uso."
I poteri di Sauron e dei suoi adepti non sono più appariscenti rispetto a quelli di Gandalf. Si tratta sempre di un'arte sottile che lavora più sulle coscienze che sui corpi. Si ripropone qui l'eterno conflitto tra Bene e Male, le cui definizioni vedono attribuire al Bene un potere originale e creatore, mentre al Male un potere pervertitore, distruttore e, nel complesso, una "brutta copia" di quello del Bene.
L'autore ha sottolineato spesso come la Magia malvagia, per il fatto che il Male, secondo lui, non esiste come entità originaria, sia sempre una forma di corruzione di un potere originariamente positivo. Tuttavia, avvicinarsi alla magia di per sé può implicare il rischio di cadere nella corruzione e nel desiderio sfrenato di dominio, perché la magia causa comunque un'esaltazione delle normali possibilità personali che non tutti possono essere in grado di controllare. Basti pensare ai Rings of Power: il loro scopo principale era quello di prevenire o rallentare il decadimento.
Come certe figure tradizionali di maghi potenti e semi-divini, Sauron non può essere propriamente ucciso: il trucco per abbatterlo sta nel sottrargli il suo potere, affinché egli diventi solo una semplice "ombra del male." Tale potere è per la maggior parte racchiuso nell'Anello da lui stesso forgiato, e che rappresenterebbe qui la "bacchetta magica" del negromante del folklore: è infatti attraverso l'Unico che egli può esercitare il suo dominio. Senza di quello, la sua arte rimane potente, ma assai sminuita, rendendolo quindi molto più vulnerabile.
Da un punto di vista magico, quindi, l'Anello rappresenta lo strumento del potere del negromante, strumento che può essere anche vicario del suo stesso proprietario, nel senso che è in grado di agire, di esprimere quel potere, anche quando il negromante è fisicamente distante. Tradizionalmente, gli oggetti magici "impregnati" del potere del mago acquistano automaticamente una vita propria e sono in grado di esercitare anche a distanza i loro influssi. Rovescio della medaglia di questo aspetto è il concetto-sineddoche della "parte per il tutto", ossia la legge magica per la quale agire magicamente su una sola parte di un corpo, o comunque su qualcosa di legato a quel corpo, significa agire sul corpo stesso. Entrambe queste regole sembrano valere anche per l'Anello e per il suo Signore.
L'arte magica di Sauron trova la sua massima espressione proprio nella forgiatura dell'Anello. Non dimentichiamo, infatti, che è proprio Sauron, sotto mentite spoglie, ad insegnare agli Elfi un'arte di forgiare gioielli assai più raffinata di quella che già conoscevano, la quale include la capacità, assai utile per i propositi dell'Oscuro Signore, di mescolare al metallo poteri meravigliosi. Questo lo avvicina alla figura mitica del fabbro, nonché dell'alchimista, perché egli cerca attraverso un anello d'oro personalmente forgiato di conquistarsi il potere su tutto l'universo.
Magica è anche la sua capacità di acquisire una forma fisica che "copra" la sua realtà spirituale e gli permetta di camminare tra gli uomini. È tale forma che i suoi nemici, se ne sono in grado, possono distruggere; ma Sauron può comunque farsene una nuova, e così all'infinito, se mantiene il suo originario potere. Con l'avvento della Terza Era, però, il Negromante sceglie di mantenere solo la sua oscura essenza spirituale, e di porsi fisicamente solo come Occhio, forma che è in realtà più metaforica che corporea.
In un certo senso questa scelta aumenta il suo peso "magico" all'interno del romanzo: Sauron sarà sempre fisicamente invisibile, tuttavia la sua presenza sarà continuamente avvertibile in una serie di fenomeni quali l'Oscurità, l'Ombra, la desolazione dei suoi territori, ma anche lo stesso Anello, l'Occhio che campeggia sugli scudi e sugli stendardi del suo esercito, la torre nella quale sta rinchiuso, Barad-dûr, letteralmente la Torre Oscura, dalla quale la sua vista può spaziare in lungo e in largo. Egli non ha più un corpo, ma magicamente è come si fosse incarnato e moltiplicato in mille altri corpi, oggetti e immagini, il cui effetto generico è assai più efficace di, ad esempio, un'unica, tradizionale raffigurazione da mago malvagio.
Questa immagine contribuisce ad accrescere il potere di Sauron, a rendere più credibile la sua quasi immortalità, a designare un Male assoluto rispetto al semplice stregone del folklore. Sauron stesso "collabora" alla stesura di questa immagine, in quanto è attraverso la sua magia che certi "mostri" del romanzo prendono vita, o perché li crea lui stesso, o perché, attraverso la sua cattiva influenza, perverte creature originariamente neutrali. Che la sua magia operi prevalentemente a livello psichico non deve stupirci: molta Magia Nera tradizionale altro non è che la capacità di coercizione sulle menti altrui, e il così detto attacco psichico è una delle sue forme principali. A tale scopo, Sauron utilizza la magia della Machine di definizione tolkieniana, ".angariando il mondo reale, o costringendo le alte volontà." Gli schiavi di Sauron, se escludiamo gli Orchi e gli altri soldati, il cui ruolo è prevalentemente quello di fungere da braccio per la Mente Malvagia, sono prevalentemente spettri. Dai Nazgûl ai Fantasmi risvegliati da Aragorn, che una volta avevano servito il Negromante, l'assenza fisica spicca come il loro attributo primario, talvolta malamente sopperita da mantelli che, fasciando l'ombra, danno loro una parvenza di corpo.
Il motivo dello spettro all'interno di The Lord of the Rings si rifà solo in parte all'immagine tradizionale dello spirito che vaga senza riposo, e che il mago evoca al suo servizio. Lo spettro è qui l'ideale personificazione dell'assenza del corpo intesa come assenza di identità, e in tale modo il Male può appropriarsene e riversarvi la propria essenza. L'assenza è la principale caratteristica del Male, che Gandalf definisce più volte con l'efficace termine nullità. Il Male distrugge, perverte, divide, annulla, perché deve rovesciare e vanificare ogni risultato del Bene: come suo opposto, non può che porsi come vuoto di fronte al pieno.
Altro tipo di spettro possono essere considerati i Salici che imprigionano gli Hobbit prima del loro incontro con Tom Bombadil, in quanto rappresentano una delle poche rappresentazioni negative della Natura all'interno di tutto il romanzo. La loro magia si realizza in un canto sommesso, definito come "formula magica", e in una conseguente sonnolenza che sembra quasi "strisciare fuori dalla terra".
Anche nel caso degli Spettri dei Tumuli, pur non essendo direttamente legati a Sauron, essi rappresentano comunque l'idea dell'ombra malefica, con, in più, un richiamo alle forze sotterranee che minano la vita superiore, la Luce. Ma Tom riesce a domare i fantasmi col potere magico della sua parola, così come Aragorn riesce a conquistarsi l'aiuto della cavalcata spettrale grazie alla magia della profezia, "attivata" dalla sua autorità regale. La Magia Nera serve quindi spesso anche da misura per i poteri del Bene: pone gli ostacoli che l'eroe deve fisicamente e/o moralmente superare; ovvero crea lo stato di fatto che deve essere cambiato attraverso una superiore capacità.
Se Sauron costituisce il fulcro di una rappresentazione magico-malefica totale, Saruman è il personaggio che più si avvicina all'idea del mago tradizionale, andando a costituire il perfetto opposto di Gandalf. È una figura interessante, in quanto egli è a sua volta un Maia, che la sete di potere personale ha fatto rivolgere alle arti oscure. Destinato dal suo ruolo di guardiano della Terra di Mezzo ad approfondire la tradizione degli Anelli di Potere, ha finito per invaghirsi dell'idea di poter essere lui il futuro dominatore. Egli non è un servo di Sauron, ha solo finto di mettersi al suo servizio per carpirgli più sapienza ancora e, infine, il ruolo di Lord. Ma, in realtà, egli appare più che altro un'ironica copia di Sauron: come il Negromante, porta al dito un anello magico, e ha sotto di sé Orchi e altri servi, che comanda con le sue magie. Singolare, se pensiamo che il Sauron a cui egli si ispira è a sua volta l'idea pervertita, una mockery [brutta copia, scimmiottatura], secondo la concezione tolkieniana, della figura positiva del divino: Saruman, risulta quindi il terzo passaggio di una catena di "cadute", l'ultimo riflesso di uno stravolgimento, drammatico e ironico allo stesso tempo, dell'immagine del Bene.
Anche Saruman rientra pienamente nel quadro che Tolkien ci dà del potere malvagio: la sua magia, basata tutta sul fascino della sua voce, è una magia del sembrare, che si fonda solo sulla possibilità che gli altri vengano ingannati dal suono mieloso e convincente delle sue parole. Nient'altro che un inganno, dunque, attraverso il quale Saruman crea a sua volta delle ombre nelle menti dei suoi avversari come in quelle dei suoi servi. Inoltre la finalità di tale magia è solo quella di distruggere: se Sauron rende ciò che tocca sterile e deserto, Saruman lo trasforma in una cava, in una fucina, in una sorta di fabbrica, poiché egli desidera, accanto al dominio, anche la ricchezza (che, evidentemente, non è in grado di procurarsi semplicemente schioccando le dita).
Magia significa anche qui magnificare le possibilità del Male come entità presente in tutte le civiltà di tutti i tempi, rendere tali possibilità (e i loro effetti) più visibili, più pericolosi, e stimolare quindi una risposta adeguata. Stranamente, però, tale risposta non arriva direttamente dalla Magia Bianca, la quale, come ho illustrato, fornisce solo un supporto, ma non risolve niente solo con il tradizionale incantesimo, bensì necessita anche del dispiegarsi di valori che sono universali e tutt'altro che magici: l'amicizia, il coraggio, il sacrificio, presenti in piccole creature estranee a qualsiasi natura meravigliosa (per quanto possano apparire strane e fantastiche a noi lettori).
Dallo scontro tra ordinario e magico nasce la "via d'uscita", la soluzione sia strutturale che tematica del romanzo, in quanto la magia dà la spinta necessaria al procedere dell'avventura, fornendo le cause, gli ostacoli, i fini, nonché la brevità necessaria allo scioglimento di certe situazioni complicate (oltre alla sicurezza che dà la presenza di un potere superiore, che aiuti dove le forze umane falliscono). Ma il nocciolo della ricerca tolkieniana, come alla fine di tutte le ricerche, è quello di mettere in risalto le qualità dell'eroe. Perché c'è sempre un momento, in tutte le tradizioni in cui la magia è presente, nel quale, senza un'attiva partecipazione dell'eroe, la missione non avrebbe né senso né termine, per cui l'elemento magico risulta essere solo una forma di decorazione, qualcosa che fa piacere che ci sia, ma sul quale non si può mai contare fino in fondo.
Non a caso, gli eroi del romanzo, dopo l'iniziale stupore, percepiscono della magia più il valore simbolico che quello propriamente fantastico. Come abbiamo visto, la Magia Bianca si trasforma in saggezza e rispetto del segreto intimo della vita; mentre la Magia Nera è avvertita subito nella sua qualità di rappresentante del Male e, quindi, nei suoi effetti disastrosi. Ciò non toglie che all'interno di The Lord of the Rings permangano degli elementi, dei temi, delle figure, puramente magici, residui di quella tradizione meravigliosa a cui Tolkien aveva attinto, nonché necessari per dare "colore" alla narrazione.
Uno degli aspetti magici che ritroviamo nel romanzo, ad esempio, è l'utilizzo dei numeri, prevalentemente il tre, il sette, e il nove. Tali numeri fanno parte della storia della magia, e il loro significato può essere alternativamente positivo o negativo. Il potere magico dei numeri è originariamente assai più ampio e importante di come lo utilizza Tolkien, filtrato attraverso una tradizione più che altro mitologico-letteraria. I numeri hanno un ruolo arcano in quasi tutti i pensieri magici, dalla Numerologia propria, alla Cabala, alla Stregoneria. In Tolkien rimane più che altro implicito: il lettore avverte certamente che un costante utilizzo di quei numeri non è casuale, ma ha dei riferimenti al loro significato magico. Tuttavia, che questo particolare venga colto o meno non ha importanza ai fini dello svolgimento della trama, e d'altra parte Tolkien stesso non gli attribuisce nessun preciso riferimento, magico o mitico che sia. Gli Spettri dell'Anello non sono più pericolosi perché sono nove invece che dieci o otto. Il simbolo numerico pare, quindi, permanere nel romanzo solo a livello superficiale, come residuo di una tradizione in cui anche i numeri avevano precisi richiami simbolici, spesso trasformati da Tolkien in un puro gioco di corrispondenze (ad esempio, i nove Nazgûl e i nove membri della Compagnia dell'Anello).

Gli oggetti magici della Terra di Mezzo

Il mezzo magico è spesso il fulcro attorno al quale ruota una vicenda fantastica tradizionale, sia essa una fiaba, un'epica cavalleresca o un romanzo fantasy. Vi è solitamente un oggetto magico principale ed altri che sono secondari o addirittura solo di contorno, per arricchire la storia. La figura dell'oggetto magico nasce probabilmente da una concezione mitica, se non religiosa, che questo stesso oggetto rivestiva in una data cultura. Esso era qualcosa la cui natura appariva superiore rispetto a quelli dei suoi "simili". Da lì all'attribuirgli poteri magici il passo era breve. L'interpretazione della funzione e della natura dell'oggetto magico dipende molto anche dall'atteggiamento che i personaggi hanno nei confronti di tale oggetto e della magia in generale. Inoltre, lo strumento magico rappresenta spesso anche la necessità di dare corpo ad un'idea, ad una potenzialità o potere astratti, come accade nel caso della figura dell'Anello. Questo è vero soprattutto per quegli oggetti che, senza il loro ruolo magico, sarebbero del tutto inutili, come, ad esempio, una sfera di cristallo o una bacchetta.
Per quanto concerne The Lord of the Rings, nella Magia Bianca tali oggetti rappresentavano una concezione della magia come "naturale", una permanenza degli antichi poteri di un popolo mitico, e perciò perfettamente integrati nella loro civiltà. In opposizione a questa presenza, abbiamo la rielaborazione di oggetti tradizionalmente magici che nel romanzo mantengono solo una certa eccezionalità mitica. Nel complesso, quindi, anche la mappa degli oggetti magici della Terra di Mezzo si presenta interessante ed intricata.
Gli Anelli sono gli oggetti magici principali dell'opera. Con tutto il loro bagaglio metaforico, simbolico e semantico, essi costituiscono il perno del romanzo, il quale, da qualunque punto di vista venga esaminato, vede nel gioiello circolare il motore primo, nonché l'elemento risolutivo, delle sue vicende. La profondità del loro significato all'interno del romanzo è tale che spesso sorpassa perfino il loro valore magico puro e semplice: più Frodo avanza attraverso Mordor col suo carico legato al collo e più, anche ad una lettura superficiale, noi lettori ci accorgiamo come in fondo i poteri magici dell'Anello siano ben poca cosa in confronto alla devastazione morale che esso è in grado di provocare. Il suo ruolo tradizionale di oggetto magico viene in pratica ribaltato: non è più il mezzo magico che aiuta l'eroe a portare a termine la sua missione, ma diventa lo scopo della missione stessa; e perde anche l'altro suo ruolo classico, quello di oggetto di una prima ricerca, perché qui l'Anello non deve essere trovato (già c'è), ma distrutto. Il mezzo magico, originariamente aiuto benefico e positivo per l'eroe, diventa uno strumento di distruzione e morte: infatti, con l'eccezione dei Tre Anelli Elfici, la figura dell'Anello è sempre legata a poteri malefici.
Del folklore e dei miti ritroviamo un altro strumento magico assai comune e diffuso: la spada. Numerose sono le spade importanti della Terra di Mezzo: Pungolo, appartenuta prima a Bilbo e poi ceduta da questi a Frodo; Narsil, o "La spada che fu rotta", la mitica spada della stirpe reale di Nùmenor, ora in mano a Aragorn, che dopo la sua riforgiatura l'ha ribattezzata Andùril; Glamdring, impugnata da Gandalf; e altre appartenenti a personaggi minori.
In conformità con la tradizione germanica riguardo alle armi, ognuna di queste spade ha un suo nome proprio. Il loro peso magico è tuttavia ridotto e relegato a certe precise situazioni: Pungolo riluce all'approssimarsi degli Orchi; Andùril non dimostra alcun potere magico vero e proprio, come invece ci aspetteremmo; Glamdring è una spada elfica che, similmente a Pungolo, balugina in prossimità di malefiche presenze. Esse sono spade di valore, valore che si ricollega al mitico significato attribuito alle spade nell'antichità, quando le armi erano cosa rara e quindi preziosa. Se poi erano di metallo, erano quasi automaticamente considerate magiche, proprio perché forgiate nelle fucine di quei fabbri a cui si attribuivano anche i magici anelli creati dai magici metalli con l'aiuto del magico fuoco.
Ma il ruolo delle spade, magiche o meno, in questo racconto, è più che altro coloristico. Sappiamo come, alla fine, la missione non si possa concludere certo grazie alle armi (nell'ultima parte del suo cammino verso il Monte Fato, Frodo si rifiuterà addirittura di portare armi), perciò sarebbe stato inutile dare troppo rilievo alla loro natura. Esse sono solo l'accessorio necessario a dipingere un mondo antico e cavalleresco, immagine addirittura indispensabile in certe situazioni eroiche; ma il ruolo principale, anche come arma (sebbene "impropria"), Tolkien l'aveva già affidato ad un altro oggetto: l'onnipresente Anello. Simile alla spada è il bastone di Gandalf, per lungo tempo strumento praticamente innocuo, almeno finché non rivela tutta la sua natura nello scontro contro il Balrog.
I pugnali dei Nazgûl hanno invece la caratteristica peculiare di essere avvelenati, ossia di potersi sciogliere all'interno della ferita e creare così un perenne "contatto" tra la vittima e il mondo delle ombre.Essi ribadiscono in pratica l'idea che il Male sia una sorta di infezione che, anche quando non uccide, lascia comunque strascichi perenni. È infatti anche a causa della ferita inferta da uno di questi terribili pugnali che Frodo rimarrà più debole di fronte agli "assalti" della tentazione del Unico e al suo peso, e che il suo malessere permarrà anche dopo che la Missione è stata portata a termine. Ad ogni ricorrenza della data di quella ferita, Frodo peggiora. Solo nel Regno degli Immortali, possiamo supporre, la sua pena troverà sollievo.
I palantìri, ultimi oggetti magici di un certo peso, seppur simili nella figura alle sfere di cristallo degli stregoni delle fiabe, hanno una loro importanza "magica" che risiede più che altro nel loro ruolo funzionale all'interno della trama, e poi nel loro valore mitico per la storia della Terra di Mezzo delle origini. I loro poteri sono un potenziamento sovrannaturale delle possibilità comunicative, nonché una rielaborazione dell'idea di telepatia, uno dei poteri che ogni grande mago si vanta di avere.
Possiamo considerare oggetto quasi "magico" anche l'athelas, con la quale nella Terra di Mezzo si guariscono molti malesseri. Le piante sono sempre state gli ingredienti primari delle pozioni magiche, tanto che anticamente la scienza dell'erboristeria era considerata una forma di stregoneria. L'athelas mescola nelle sue proprietà il magico e il quotidiano tipico di molta della magia tolkieniana, ovvero si lega molto alla magia delle piante com'era intesa nell'antica tradizione. Pochi sono però quelli che realmente credono nel potere curativo della pianta, Aragorn è tra questi. Non a caso, il suo potere di guaritore si lega alla conoscenza delle qualità di questa pianta di purificare l'aria, trasmettere tranquillità e pace ai malati e disinfettare le ferite. È quindi una pianta strettamente limitata a scopi benefici, e non propriamente magica.

Il linguaggio magico: proverbi, profezie ed incantesimi

Ove si concepisca la lingua e la parola come corrispettivi speculari della realtà che indicano, è assai probabile che ci sia anche un'identità magica tra cosa e nome, i quali non sarebbero che due differenti facce di una stessa realtà essenziale: un potere, un'energia, che però solo gli esperti dell'occulto, siano essi maghi, saggi, sciamani, preti o stregoni, sono in grado di utilizzare. Ogni nome possiede un potere evocativo. È da una simile concezione del linguaggio che nasce l'idea della formula magica. Più di una preghiera, la formula magica è un'appellarsi, anzi, un comandare ai poteri sottili della realtà (realtà intesa in un senso molto più ampio di quello abituale) di servire il mago per i suoi scopi. Recitare una formula magica implica non solo conoscere i nomi giusti, ma saperli anche pronunciare con la giusta intonazione.
In The Lord of the Rings non abbiamo molte formule magiche e incantesimi ad esse legate. Spesso le poche formule che appaiono sono ambigue: possono essere sia formule che brani mitologici in versi. La maledizione dell'Anello iscritta lungo tutta la sua superficie "racconta" la storia dell'oggetto stesso, ed è tuttavia anche un appello alla natura del Malefico, il che spiega la ritrosia di Gandalf a pronunciarla. In un mondo dove la magia sta man mano svanendo, è anche facile concepire come le antiche formule siano degradate a statuto di filastrocche, specialmente quando sia necessaria una profonda conoscenza e preparazione per recitarli efficacemente.
Tom Bombadil è, come abbiamo visto, un altro detentore della magia formulaica, espressa attraverso versi o parole rimate. Tramite questi versi egli libera due volte gli Hobbit da grinfie malvagie. Egli, inoltre, insegna a Frodo una breve canzoncina che serve a chiamarlo nel caso che qualcuno abbia bisogno del suo aiuto nei pressi dei suoi possedimenti. Le due formule, oltre a chiamare Tom in aiuto, riassumono in poche parole la sua essenza legata alla Natura.
Un'altra formula presente nel romanzo è quello che la Compagnia deve recitare per varcare i cancelli di Moria. Anche questa formula è fatta, in un certo senso, di una strofa e di una controstrofa: bisogna decifrare la scritta sul portale e trovare la "parola magica" che quella scritta comanda di pronunciare, affinché le porte si aprano. La scritta è in elfico antico, e recita semplicemente: "Le Porte di Durin, Signore di Moria. Dite, amici, ed entrate.", ed è seguita da una iscrizione più piccola che riporta i nomi degli autori delle porte e della scritta ("Io, Narvi, le feci. Celembribor dell'Agrifoglio tracciò questi segni."), sul modello delle prime iscrizioni runiche ritrovate su tutto l'antico territorio germanico, le quali indicano quasi sempre gli autori della scritta, o i creatori dell'oggetto marcato con quella scritta, o i loro proprietari, in una semplice sequenza di nome, verbo, oggetto.
Gandalf intuisce immediatamente che ".queste porte sono probabilmente governate da parole."
L'enigma è capire cosa amici debba dire per entrare, enigma che nasce in realtà da una cattiva interpretazione dell'iscrizione stessa, la quale, scoprirà sempre Gandalf dopo un po', dovrebbe semmai essere letta: "Dite "Amici" ed entrate." La parola magica è quindi proprio amici, in elfico mellon, con tutti i richiami al valore tolkieniano dell'amicizia che, da una parte Gandalf stesso, dall'altra tutta la Compagnia, hanno finito per rappresentare. Tuttavia, prima di giungere a questa soluzione, Gandalf, certo di dover pronunciare una formula magica, attinge il più possibile dal suo bagaglio formulaico di mago: "Un tempo conoscevo qualsiasi incantesimo, in tutte le lingue degli Elfi, degli Uomini, o degli Orchetti, che fosse mai stato adoperato per tale scopo.", testimoniandoci, con queste parole, un più ampio uso degli incantesimi, di cui però nel romanzo non è rimasta traccia. Solo quando neanche il tradizionale e universale Apriti, apriti! funziona, ecco che arriva l'insperata (e banale) soluzione: "La parola chiave era innanzi a noi, scritta sull'arco! [.] Estremamente semplice. Troppo semplice per un maestro delle tradizioni in giorni di diffidenza come questi. Allora i tempi erano più felici."
Tuttavia, nonostante l'esiguità delle formule, un alone di magia permane in altri aspetti linguistici, rappresentati dalle profezie, volontarie o involontarie, e dai proverbi, i quali possono spesso rivestire anche una funzione profetica. Come ogni società tradizionale che si rispetti, quella della Terra di Mezzo abbonda di proverbi.
Le profezie pongono nelle menti degli eroi, come in quelle dei lettori, il seme di una possibilità, possibilità che un qualcosa accada. Non ci aspettiamo che ciò di cui parlano le profezie avvenga senza fallo, perché spesso queste profezie non hanno l'autorità tradizionale propria della loro categoria, la quale talvolta rende gli avvenimenti perfino scontati. Tuttavia, come un'eco che permane nella memoria, esse ritornano fuori sotto una luce differente, nel momento in cui non possiamo fare a meno di notare che davvero quello che era stato solo ipotizzato a parole, pagine o capitoli prima, è realmente accaduto. L'effetto sorpresa è aumentato dal fatto che tali profezie operano all'interno di una struttura narrativa che è tutt'altro che lineare, in cui gli accadimenti sono interrotti e frammentari.
La prima importante profezia è quella enigmatica che spinge Boromir al Concilio di Elrond. È una profezia notevole non solo perché racchiude in pochi versi tutti i fili principali della ricerca dell'Anello, ma anche perché si ricollega al tema del sogno: essa è infatti giunta a Faramir, fratello di Boromir, proprio in sogno:
Cerca la Spada che fu Rotta:
Ad Imladris la troverai;
I consigli della gente dotta
Più forti di Morgul avrai.
Lì un segno verrà mostrato
Indice che il Giudizio è vicino,
Il Flagello d'Isildur s'è svegliato,
Ed il Mezzuomo è in cammino.
A questa profezia sul ritorno di Aragorn, proprietario della Spada che fu spezzata, e sulla missione di Frodo, il Mezzuomo che si occuperà dell'Anello (detto anche la Rovina di Ilsidur dal mitico episodio che coinvolse l'antenato di Aragorn), segue un'altra profetica e proverbiale rivelazione del "saggio" Bilbo, assai nuovo in questo ruolo. Le sue parole vogliono mettere in luce, attraverso il potere dei versi, la possibilità che leggenda e mito possano finalmente risvegliarsi dal polveroso ruolo folkloristico in cui erano state imprigionate, e illuminare la via da intraprendere per salvare la Terra di Mezzo:
Non tutto quel ch'è oro brilla,
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch'è forte non s'aggrinza
E le radici non gelano.

Dalle ceneri rinascerà un fuoco,
L'ombra sprigionerà una scintilla,
Nuova la lama ora rotta,
E re quei ch'è senza corona.
Un'altra profezia-chiave del romanzo, assai importante anche questa a livello strutturale, è quella legata all'attraversamento del Sentiero dei Morti da parte di Aragorn. Qui la profezia, come molta magia tolkieniana, ha la funzione principale di creare la causa, nonché la scusa, per questo avvenimento, una causa e una scusa che siano inattaccabili da ogni critica come da ogni rifiuto. E altrettanto bene Aragorn conosce l'altra profezia, quella legata alla leggenda per la quale i Fantasmi di quei guerrieri che una volta hanno tradito il Bene a favore del Male dovranno di nuovo servire la causa dei giusti per riscattare il loro tradimento, appena un altro potente e valoroso discendente di Nùmenor leverà la spada contro le tenebre. La "via più rapida" che Aragorn sceglie di percorrere non è intesa solo in senso geografico: è anche la più breve per raggiungere l'apice del suo ruolo di sovrano, colui che, fra le sue tante funzioni, è anche capace di far avverare le profezie.
Non tutte le profezie sono in versi. E spesso appaiono addirittura più come speranze, sensazioni, che vere e proprie coscienti previsioni. Queste ultime sembrano quasi il residuo di un'antica capacità di "sentire", propria di un mondo dove l'idea di una "sovra-realtà" era perfettamente, totalmente e comunemente accettata (e dove, quindi, le capacità profetiche erano come pane quotidiano). Tolkien, giustamente, non ha voluto sovraccaricare la sua narrazione di meraviglioso, per non togliere tutta la credibilità alla sua subcreazione affidando ogni soluzione alla magia. Ci doveva essere spazio anche per il libero arbitrio, come per un Fato superiore agli eventi contingenti, oltre che, naturalmente, per la necessità, tutta narrativa, di non uccidere la suspense e la sorpresa con un continuo alternarsi di anticipi profetici e realizzazioni puntuali di questi. Perciò certe profezie involontarie si avverano solo dopo un lungo travaglio, lungo il quale il loro valore meraviglioso sembra andare totalmente perso.
Gandalf è spesso latore di queste profezie involontarie, alle quali la sua saggezza e autorità conferiscono già in parte una certa aura di certezza. Quando all'inizio del romanzo delinea per Frodo la figura di Gollum, egli commenta anche che Gollum ".è legato al destino dell'Anello. Il cuore mi dice che prima della fine di questa storia l'aspetta un'ultima parte da recitare, malvagia o benigna che sia.", il che, come apprendiamo nel corso della trama, si rivela vero: per il bene Gollum aiuterà Frodo e Sam ad attraversare Mordor, sebbene le sue vere intenzioni siano malvagie; e, infatti, malvagio strapperà a Frodo l'Anello proprio sulla cime del Monte Fato. Ma la sua azione gli si rivolterà contro, risultando alla fine benigna. Profetica è anche la considerazione che Gollum vada trattato con pietà, e non con violenza. La Pietà è il "trucco narrativo" che Tolkien utilizza per permettere che il cattivo Gollum sopravviva per "intervenire" dove il buon Frodo fallisce.
Similmente Sam dirà di se stesso: "Ho qualcosa da fare prima della fine, qualcosa che si trova avanti a me.", quasi sentendo che il suo ruolo all'interno della missione sarà assai superiore a quello di semplice "accompagnatore". Frodo, a sua volta, è spesso soggetto di molte profezie, sotto forma di saggi apprezzamenti sul suo coraggio e sulla sua possibilità di essere molto migliore di quello che sembra; ed è a sua volta profeta accidentale di molti importanti accadimenti che si realizzeranno sul suo cammino. I primi Elfi che incontrerà diranno di lui: "Ecco un gioiello tra gli hobbit.", osservazione acuta per ciò che Frodo dimostrerà di essere durante la sua ardua missione, e allo stesso tempo ironica per il forte legame che lo unisce al gioiello per eccellenza, l'Anello. Bilbo, dopo che il Concilio ha decretato la Missione sul Monte Fato, saluterà l'eroico nipote con questa frase, emblematica, in quanto sarà più o meno ricalcata da tutti coloro che dimostreranno fiducia nel giovane Hobbit: "Sembri solo un semplice hobbit," disse Bilbo. "Ma c'è di più in te di quanto appaia in superficie."
Le proprietà sensitive di Frodo si infittiscono man mano che si addentra in Mordor, connesse probabilmente con l'accrescersi del Potere dell'Anello su di lui, con la ferita Nazgûl e con il conseguente affinarsi della sua sensibilità. A parte la continua impressione di essere osservato (che è reale: egli può percepire l'Occhio del Male seguire il suo cammino), egli sembra prevedere la fine di Gollum quando, liberatosi dal suo assalto alle pendici del vulcano, lo minaccia con dure parole: "Se mai dovessi toccarmi ancora, verrai gettato anche tu nel Fuoco del Fato.", cosa che accadrà puntualmente due pagine dopo.
Analoghi esempi quasi si sprecano.
Un certo tipo di profezia lavora anche tramite il sogno, il quale, rivestendo però un triplo ruolo all'interno del romanzo, merita senz'altro un discorso a parte.

Sogno profetico, sogno ristorativo e le ombre della leggenda.

Il sogno, all'interno di The Lord of the Rings, assolve più di uno scopo. Abbiamo sogni profetici, i quali, ci anticipano sprazzi di futuro, con quell'ombra di incertezza che caratterizza la natura del sogno in sé, e la cui veridicità sarà, proprio come nel caso delle profezie, dimostrata solo nel corso degli eventi. Poi troviamo, specialmente nel caso di Frodo, i sogni intesi come momenti di ristoro, non solo fisico ma anche psicologico. A questo tipo di sogni si oppongono gli incubi, ad occhi chiusi o ad occhi aperti, che tormentano i nostri eroi nei momenti più critici della loro impresa. Paradigmatici sono gli incubi che sempre Frodo fa mentre è prigioniero degli Orchi a Cirith Ungol. Quando Sam lo ritrova e lo abbraccia, egli mormora: "Sto ancora sognando? [.] Ma glia ltri sogni erano orribili." Questa frase, tra l'altro, lascia in realtà un sottile dubbio sulla natura di questi sogni: se Frodo prende per sogno il compagno ritrovato, è possibile che considerasse incubi le torture che gli venivano inflitte, essendo ormai già abbondantemente provato dall'esperienza dell'Anello, che lo ha reso psicologicamente debole.
Il sogno, poi, è anche, in senso traslato, il desiderio e/o la sensazione che i nostri eroi hanno di star vivendo di persona una leggenda. A dir la verità, nel romanzo non troviamo il risveglio vero e proprio, che rende il sogno solo illusione. La crescita, il cambiamento, che i nostri eroi hanno acquisito durante la loro avventura, si mantiene, non svanisce. Tuttavia, l'idea di transitorietà che il sogno ci richiama è confermata su un altro piano, in quanto si riallaccia alla transitorietà che la civiltà della Terza Era, anche a causa di quella stessa missione che ha fatto crescere i nostri amici, ha subito. In questo senso, il sogno diventerebbe icona di quella distanza che le civiltà più recenti hanno nei confronti della tradizione antica e "magica" così com'è narrata in The Lord of the Rings.
Ma ritorniamo ora ad approfondire maggiormente la figura del sogno profetico. Il primo sogno di tal genere si rivela a Frodo durante la sua permanenza nella casa di Tom Bombadil. Egli sogna Isengard di notte, la catena di montagne che la circonda e la torre di Orthanc, sulla quale si staglia una figura dai lunghi capelli bianchi. Saruman? Lo scopriremo solo più tardi, al Concilio di Elrond. Nel sogno Frodo sente ancora grida e ululati di lupi, e vede un'aquila volare verso la misteriosa figura, che alza verso di lei il suo bastone luccicante: l'aquila la prende su di sè e la porta lontano. Basta confrontare questo sogno con il resoconto che a Elrond Gandalf fa della sua ultima avventura a Isengard, quando, dopo essersi scontrato con Saruman, viene da lui rinchiuso nel pinnacolo di Orthanc e, in seguito, salvato dall'aquila Gwaihir, per capire che Frodo in sogno ha "visto" quel medesimo episodio. Ed infatti non si tratterrà dall'interrompere Gandalf: "Io ti vidi!" gridò Frodo. "Stavi camminando in su e in giù e la luna brillava nei tuoi capelli." Ma aggiungerà anche: "Si trattava solo di un sogno." Gandalf, però, non la vede a questo modo. Dopo aver fissato l'amico, attonito, commenterà che se davvero lui ha avuto quel sogno poco dopo aver lasciato la Contea, allora quel sogno ". è arrivato tardi.", ossia, tale sogno è avvenuto dopo che l'evento era realmente accaduto. Solo che Frodo non poteva assolutamente sapere ciò che era successo al mago.
Dimensione di sogno hanno anche le visioni che Sam e Frodo ricevono dallo Specchio di Galadriel, poiché la visione li coglie passivi, quasi in trance, totalmente immemori di ciò che li circonda. E del sogno mantengono la stessa incertezza, in quanto Galadriel dice loro che le visioni possono non corrispondere alla realtà. Sam vede nell'acqua della bacinella la distruzione della Contea ad opera di Saruman. Frodo ha ben quattro visioni: la prima riguarda ancora Gandalf, o meglio, la figura che vede venire lungo una strada gli ricorda Gandalf, e sta anche per chiamarlo, ma poi nota le sue vesti bianche, non grigie come quelle del mago, e ha il dubbio che potesse invece trattarsi di Saruman. La seconda visione è una breve occhiata a Bilbo, addormentato davanti ad una scrivania ingombra di fogli: probabilmente parti del suo Libro Rosso. La terza visione coinvolge il Mare, e una enorme nave che lo solca da ovest. Vede un fiume e una città popolosa, e un'altra nave che ha la vela nera ed un'insegna con un albero. Frodo vede poi immagini di battaglia, e nuovamente il mare, con una piccola nave che lo attraversa nella nebbia. C'è poi la visione dell'Occhio di Sauron.
Il senso di queste visoni è piuttosto chiaro: la prima si riferisce alla nuova natura di Gandalf, di cui però Frodo non è a conoscenza (egli lo crede morto). La stessa immagine dell'uomo che arriva lungo una strada, fra l'altro, la ritroviamo anche nel capitolo Il Cavaliere Bianco, preludio all'incontro tra il nuovo Gandalf e Aragorn, Gimli e Legolas. La seconda, breve immagine è probabilmente un sottile richiamo alla metanarratività del romanzo: mentre i nostri eroi sono impegnati nella missione, Bilbo scrive (o dovrebbe scrivere!) la cronaca degli eventi dell'Anello. La terza visione è quella più complessa, in quanto richiama più episodi: la prima nave fa sicuramente riferimento ad un episodio della mitologia tolkieniana, probabilmente la cacciata dei Nùmenoreani dalle Isole Occidentali. La seconda nave è invece quella di Aragorn, riconoscibile dalla vela nera e dall'albero bianco, con la quale egli giunge via fiume a Gondor, dopo aver attraversato i Sentieri dei Morti. E infatti, a tale visione segue quella della battaglia che libererà Gondor dall'assedio nemico. L'ultima nave che Frodo vede è invece quella che lo porterà, con Gandalf, Bilbo e gli Elfi, al di là del Mare stesso. È il viaggio inverso compiuto dalla prima nave della sua visione, visione che propone quindi, in un certo senso, l'intero ciclo della storia-leggenda della Terra di Mezzo. La visione dell'Occhio è, rispetto alle altre, di natura più spirituale, nel senso che invece di anticiparci un episodio reale, passato o presente, ci fa presagire il legame tra Frodo, Portatore dell'Anello, e Sauron, Creatore dell'Anello.
Può essere interessante notare che la prima parte della terza visione di Frodo, si ricollega anche ad un sogno che fa spesso Faramir, il quale a sua volta s'ispira ad un incubo che perseguitava Tolkien stesso in gioventù. Durante il silenzioso corteggiamento che Faramir fa ad Eowin, al cavaliere capita di parlare di questo sogno riguardante la caduta di Nùmenor,
".la terra dell'Ovesturia che s'inabissò, e la grande ombra oscura che sommerse tutte le terre verdi e le colline e che avanzava, oscurità inesorabile. La sogno sovente."
In questo sogno è parzialmente riconoscibile il mito di Atlantide, mito dal quale Tolkien fu perpetuamente affascinato, tanto da sognarlo a sua volta ripetutamente:
"Un'onda enorme torreggiava sopra di lui e avanzava inesorabilmente sugli alberi e sui campi, sospesa e pronta ad inghiottire lui e tutto ciò che si trovava intorno."
Tolkien definì questo suo incubo "il mio complesso d'Atlantide", e ribadì in una lettera l'autobiograficità del sogno di Faramir: ".quando Faramir parla della sua privata visione della Grande Onda, lui parla per me." La caduta di Nùmenor si rifà chiaramente alla leggenda di Atlantide.
E' chiaro, ancora una volta, come sogni contenuti nel romanzo, oltre ad incrementarne l'atmosfera magica, aiutino anche l'intreccio con il trucco di anticipare, su differenti piani, lo svolgersi degli eventi, senza mai darci però la garanzia che questi si avvereranno davvero.
In conclusione si può affermare che in The Lord of the Rings, la profezia magica, al di fuori della sua necessaria presenza coloristica, diventa solo il mezzo con cui l'autore gestisce e intreccia la sua materia per il gusto del lettore.


Bibliografia

. MAGIA E ARTI MAGICHE IN "THE LORD OF THE RINGS", Simona Bonanni (http://www.angelicaduti.org/tesitolkien.htm).


 

           
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