Un Mondo in più
Analisi dell'opera di J.R.R. Tolkien di Marc Taccone

gni scrittore che crei un Mondo Secondario probabilmente desidera in parte almeno essere un creatore effettivo, o almeno spera di attingere alla realtà: spera che l'essenza propria di questo Mondo Secondario (se non ogni suo particolare) derivi dalla realtà oppure a essa confluisca".

Questo intervento di John Ronald Reuel Tolkien alla conferenza dell'8 marzo 1939 alla St.Andews University spiega come l'intera opera tolkieniana, da Lo Hobbit al Signore degli Anelli al Silmarillion sia dunque la concreta "sub-creazione" di un Mondo Secondario che risulta vero agli occhi di chi vi si inoltra (come è successo a me).

Come una specie di Creatore alternativo lo scrittore pone le basi di una Realtà Altra, non per questo meno reale di quella in cui vive e lavora. Naturalmente sta alla sua abilità letteraria fare in modo che questa alternativa prenda forma reale nell'immaginazione di chi vi si avvicina.

Il desiderio che fu di Tolkien, e di tutti coloro che hanno scritto di nuovi mondi (da I. Asimov a D. Eddings), è lo stesso che pervade la mente di chi legge le loro opere, e cioè di poter un giorno riuscire a mettere piede in questi fantastici, e fantasticamente reali, Mondi Secondari. L'inventore della "Terra di Mezzo" è forse l'esponente, di questi autorevoli "sognatori", che più si è avvicinato all'obiettivo, creando un mondo geologicamente plausibile (realizzazione assolutamente non facile) e globalmente ipotizzabile, popolandolo delle creature della mitologia Celtica (Elfi, Trolls, Nani Guerrieri) e dell'immaginario comune (Maghi con tanto di cappuccio, Orchi, Eroi e Draghi), dando ad ognuno di loro una personalità affinata e ricercata che è stata poi inseguita da molti scrittori vicini al mondo della fantasy letteraria. Quello che sorprende è la facilità con cui Tolkien introduce i lettori nel suo mondo, rendendo, al tempo stesso, semplice e immediata la comprensione di culture e personalità assolutamente nuove. Ed è forse per questo motivo che nel Mondo Secondario di Tolkien risponde ai Tre Pilastri della Fantasy, ben individuati nell'ormai classico Saggio di Voglino (Alex Voglino, Le radici della Fantasia Eroica, in app. a Maghi e Guerrieri, Fanucci 1979):
1) La prospettazione di un universo fantastico diverso e "alternativo" rispetto a quello reale.
2) Il concepimento di tale universo come "reale" a sua volta, e quindi autocosciente .
3) L'uso della narrativa in modo simbolico e non metaforico.

La Terra di Mezzo

Nel momento in cui mi avvicinai al Signore degli Anelli, l'opera prima di Tolkien, non ho potuto fare a meno di sentirmi coinvolto dalla narrazione e, in particolar modo, durante la descrizione che l'autore faceva di alcuni paesaggi, non ho potuto fare a meno di sentirmi lì ad osservare campagne verdeggianti, montagne imponenti e fiumi dirompenti. Ma lì dove? Qual è il luogo dove si muovono i personaggi? Per quale motivo è così coinvolgente? Perché sembra così reale?

Per quanto io possa aver "compreso" la narrazione di Tolkien, credo comunque che un tratto qualsiasi del libro sviluppi il concetto in modo migliore di quanto chiunque possa fare:
"I viaggiatori giunsero ad una bassa cresta ove crescevano antichi alberi d'agrifoglio i cui tronchi grigioverdi sembravano costruiti con la pietra stessa delle colline. Le foglie erano scure e lucenti, e le bacche ardevano rosse ai raggi del sole nascente. All'estremo sud Frodo intravedeva i vaghi contorni di alte montagne che parevano ora ergersi in mezzo al sentiero che la Compagnia stava per percorrere" (Il Signore degli Anelli, parte prima, libro II, cap. III)
Lo scrittore ha descritto ciò che i suoi personaggi si trovavano di fronte in modo che anche il lettore potesse vederlo, ma ha potuto farlo perché la terra di cui parlava era, in un certo senso, la sua terra, elemento di aggregazione storico-culturale di quasi tutte le opere tolkieniane, centro essenziale di tutte le vicende fantastiche che vi avvengono, luogo ove Tolkien stesso ha riversato tutti i suoi sogni (qualcuno è pronto a giurare che vi abbia abitato); lo scrittore ha potuto farci vivere le sue descrizioni perché conosceva la terra meglio dei personaggi stessi che la abitavano.

Il fatto che questa terra non abbia altro nome che Middle-Earth non vuol certo dire che il suo ruolo sia secondario, anzi, a mio avviso la Terra di Mezzo è il reale protagonista dei tre libri principali di Tolkien e, considerando il lavoro storico (fittizio, ma incredibilmente realistico) svolto nel Silmarillion, si può tranquillamente affermare che, a mio avviso, la base più solida sulla quale lo scrittore si appoggia, sia proprio la terra con tutte le sue bellezze e asperità. Non si può fare a meno, a questo punto, di chiedersi se, senza la conoscenza così approfondita della Terra di Mezzo, le magistrali descrizioni di Tolkien non avrebbero subito un drastico calo di impatto man mano che il romanzo avanzava tra luoghi sempre nuovi.

A riprova di quanto fin qui affermato, si noti come, dopo la morte dello scrittore, siano state avviate lodevoli (e sicuramente redditizie) iniziative economiche, come Puzzles, Atlanti Storico-Geografici, Giochi di Ruolo con relative mappe di ambientazione, Moduli Geografici, incentrati sulla stessa Terra di Mezzo, come mai era successo per nessuna altra ambientazione romanzesca, dimostrando come il Mondo Secondario di J.J.R. Tolkien sia, per molti (me compreso), reale tanto quanto il nostro Mondo Primario. e forse migliore.

Chi abita la Terra di Mezzo?

Dopo aver scritto dell'importanza rivestita dal luogo che fa da scenario alle storie che lo scrittore descrive, è d'obbligo descriverne gli abitanti.

La mitologia Celtica descriveva gli Elfi come piccole creature, nascoste tra i boschi, dedite soprattutto alla pratica degli scherzi nei confronti della "Gente Alta". Tolkien usa la parola "Elfi" per descrivere qualcosa di profondamente diverso da ciò che era l'immaginario comune dell'epoca, incarnando in essi una sorta di perfezione umana (a mio avviso tutt'altro che perfetta) che vive in simbiosi con la sua terra, sfruttandone le risorse senza deturparla.

Gli Elfi sono i "Primi Nati", le prime creature cioè fatte nascere dalla divinità. Scrive Tolkien, in una lunghissima lettera del 1951, "Il destino degli Elfi è quello di essere immortali, di amare la bellezza del mondo, di portarla a pieno compimento con le loro doti di delicatezza e perfezione, di durare finchè il mondo dura, non abbandonandolo neppure se abbattuti ma ritornando". Centro nevralgico del Silmarillion, questi affascinanti esseri saranno, insieme, croce e delizia della narrativa Tolkieniana, con la loro spiccata propensione all'arte e alla magia danno forma agli oggetti più belli e bramati del Regno Beato (Valinor, la terra degli Dei), i Silmaril, nei quali è rinchiusa la luce primigenia.

Sarà l'atteggiamento estremamente possessivo di Feanor, supremo artefice dei tre Gioielli Primordiali, e dei suoi sette figli nei confronti di queste meravigliose gemme e, di contempo, la brama che ne aveva il Nemico (Melkor) a provocare la guerra della Prima Era.

I Silmaril vengono perduti, per sempre, dopo interminabili lotte per il loro possesso, ma nella Seconda Era gli Elfi cadranno ancora una volta in errore. Incitati da Sauron, incarnazione stessa del Male sotto mentite spoglie, essi danno foggia agli Anelli del potere, oggetti di grande magia in grado di agire anche sulla terra stessa, non comprendendo i disegni di Sauron che da solo, in seguito, creò L'unico Anello, in grado di dominare i poteri degli altri, dandogli così l'opportunità di dominare sull'intera Terra di Mezzo. La Seconda Era si conclude con la battaglia che vede i più grandi Re elfici dar battaglia a Sauron e tagliargli il dito che indossava l'anello, che va così perduto, ma non in eterno.

Non esenti da grandi colpe gli Elfi restano comunque la stirpe più affascinante e misteriosa del mito tolkieniano, alti, belli oltre ogni immaginazione, con le orecchie a punta, capaci di grandi magie e di perfidi scherzi, abitanti dei luoghi più belli della Terra di Mezzo, conquistano il lettore con la loro idea di aristocraticità e mistero.

Sarebbe notevolmente tedioso star qui a descrivere tutte le varie razze che comprendono il genere Uomo, e che, comunque, somigliano agli abitanti del nostro Mondo Primario, e sarebbe, senza dubbio, impossibile riassumerne in poche righe le gesta, volte, per la maggior parte dei casi, a rimediare ai guai provocati dagli Elfi[1]. Una razza in particolare, tuttavia, merita attenzione, i Re degli uomini (Tolkien li chiama Dùnedain).

I Dunedain sono i discendenti di quegli uomini che, nel corso della Seconda Era, si insediarono sull'isola di Numenor, vicina ai regni elfici dell'ovest di Valinor. I loro antenati Numenoreani conquistarono e colonizzarono vastissime zone della Terra di Mezzo.

Come è narrato nel Silmarillion, sul finire della Seconda Era, Sauron riuscì a corrompere l'animo del Re Ar-Pharazon. Così a Numenor furono eretti templi in favore del Nemico (Morgoth), Signore delle tenebre, e su quegli altari vennero compiuti sacrifici umani.

Istigato da Sauron, Re Ar-Pharazon scagliò la propria armata contro gli Dei e si spinse ad Occidente, sfidando il divieto di Eru (l'entità divina primaria). Ma l'ira di questo fu grande, e la sua punizione cambiò la faccia del mondo. Un abisso si spalancò nel Grande Mare fra Valinor e la Terra di Mezzo, e Numenor dei Re fu inghiottita e distrutta per sempre, e la stessa Valinor allontanata dalle sfere del Mondo.

Ma essendo grande la clemenza di Eru, e siccome tre grandi Numenoreani (Isildur, Anarion e Elendil) restarono fedeli agli Dei, fu loro permesso, insieme ai discendenti, di trovare rifugio nella Terra di Mezzo fuggendo l'orribile cataclisma. Quindi, quando Numenor sprofondò nelle acque, nel 3319 S.E., solo due gruppi di Numenoreani sopravvissero: I Numenoreani Neri, fedeli a Sauron e scampati alla tragedia, e i Dunedain, discendenti dei tre "fedeli".

Questi ultimi diedero vita alle dinastie dominanti gran parte della Terra di Mezzo, come si racconta nel Silmarillion, ma l'evento al centro della storia dei Dunedain è "Il Ritorno del Re" (Titolo di uno dei tre libri che formano "Il Signore degli Anelli"), raccontato nell'Opera Prima di Tolkien, che descrive il ritorno, dopo anni di governatorato da parte dei Sovrintendenti, di un Discendente di Isildur sul trono del grande regno di Gondor.

I Nani sono stati "forgiati" nella roccia, e come la roccia sono inamovibili nei loro propositi. Questa loro caratteristica li ha fatti prosperare, ma li ha anche portati alla rovina: la loro solidità di intenti li ha fatti perseverare anche negli errori. Vivono preferibilmente nel cuore delle montagne e sono abilissimi nell'abbellire le loro caverne e farne vere e proprie città sotterranee, dove estraggono e lavorano i metalli più rari. La loro passione per i gioielli e le cose ben fatte li ha spinti a rubare il Silmaril di Re Thingol, quando questi gli chiese di incastonarlo in una collana fatta da loro. Alla fine dell'opera infatti, reputarono la collana troppo bella per essere restituita e scatenarono la terribile guerra tra Sindar (Elfi Grigi) e i Nani.

La mentalità dei Nani e i loro costumi sono perfettamente descritti nel Lo Hobbit, ove una compagnia di Nani parte per recuperare un loro atavico tesoro perduto in guerra contro Sauron, sfidando il drago che lo custodiva. Burberi e brontoloni rappresentano, comunque, il miglior amico che si possa avere in guerra, in quanto vengono considerati, da tutti coloro abitano la Terra di Mezzo, i migliori combattenti in circolazione, ma soffrono di una, più che comprensibile, avversità alle cavalcature alte e all'acqua, oltre, naturalmente, che agli Elfi (preferibilmente Sindar). Ne Il Signore degli Anelli si instaura il rapporto di amicizia più singolare che la Terra di Mezzo ricordi, infatti, l'insolita scommessa tra Gimli (Nano della montagna solitaria) e Legolas (figlio di Thranduil Re degli Elfi Silvani di Bosco Atro) durante la battaglia del Trombatorrione rimane nella memoria del lettore sia per il risultato (Vince il Nano che uccide un orchetto in più dell'Elfo) sia perché determina il superamento di una barriera psicologica che preoccupa il lettore sin dalla partenza della compagnia. Il lavoro di squadra che ne scaturisce piace in modo particolare e risulta essere argomento di discussione tra i lettori di Tolkien oltre che dei protagonisti stessi.

Se si apre il dizionario della Lingua Inglese alla ricerca della parola Hobbit non c'è da rimaner stupiti se vi trovate di fronte questa definizione: "Nei racconti di J.R.R. Tolkien (1892-1973) esemplari di un popolo immaginario, una varietà minore della razza umana, che si sono dati da soli questo nome (significa abitatori di buchi), ma che venivano chiamati mezzuomini, dato che la loro altezza era la metà di quella di un uomo normale". Ma per la descrizione migliore possibile di questa particolarissima popolazione mi rifaccio alle parole che lo stesso Tolkien scrisse in occasione di una lettera ad un amico:
"In realtà sono un Hobbit anch'io, in tutto tranne che nella statura. Amo i giardini, gli alberi, e le fattorie non meccanizzate; fumo la pipa ed apprezzo il buon cibo semplice (non surgelato), ma detesto la cucina francese; mi piacciono, e oso persino indossarli anche in questi giorni cupi, panciotti ornati. Vado matto per i funghi (raccolti nei campi), ho un senso dell'umorismo molto semplice (che i miei critici più entusiasti trovano noioso); vado a letto tardi e mi alzo tardi (quando mi è possibile). Non viaggio molto".
Questo è il ritratto di Bilbo e Frodo Baggings, protagonisti de Lo Hobbit e de Il Signore degli Anelli. Costruendo il carattere, le abitudini, la psicologia, i pregi e i difetti dei "mezzuomini", Tolkien evidentemente pensava indirettamente a se stesso. Non che lo abbia fatto volontariamente: se ne è accorto dopo. In fondo che un autore metta un po' di se nelle figure dei personaggi principali del suo libro è quasi cosa ovvia. In più gli Hobbit hanno quella caratteristica di eroi malgrado tutto e malgrado loro stessi (non sono assolutamente degli antieroi, però) che ben si attaglia non solo al professore di Oxford che li ha immaginati, ma ad una categoria più generale. Tolkien spiegò una volta ad un intervistatore: "Gli Hobbit sono semplicemente dei rustici uomini inglesi di piccole dimensioni, e questo riflette la piccola portata della loro immaginazione, non certo quella del loro coraggio o del loro potere latente".

In conclusione.

.Niente. Perché non è possibile, in così poco, riassumere la grandezza dell'opera del "Maestro della Fantasy", e, conseguentemente, posso solo sperare che questa descrizione sommaria del "Mondo Secondario" di Tolkien serva almeno a riconoscere, una volta in più, la grandezza di un uomo che, con delle semplici parole su altrettanto semplici fogli, è riuscito a coinvolgere milioni di persone e, dettaglio tutt'altro che trascurabile, a far loro usare una qualità che va pian piano scomparendo: l'immaginazione.

1Non che siano da meno le fatiche degli Elfi per rimediare alle malefatte degli Uomini. (GC)

NOTA: il documento è disponibile anche in formato testo, consultabile e stampabile esclusivamente per uso privato.

 

           
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