Oltre la lettura
di Gianluca Comastri

in dal loro primo ingresso nel panorama letterario mondiale, i romanzi di Tolkien hanno acceso verbose discussioni, tanto fra il grande pubblico quanto nel più ristretto ambito della critica, circa la corretta interpretazione del loro significato. Attualmente, sull'onda di un ritorno di popolarità che vede incrementarsi considerevolmente il numero degli appassionati, e stante l'affermazione della Rete come nuovo mezzo comunicativo di massa, si assiste ad un proliferare di siti dedicati alle opere del Professore; ciò dona la possibilità ad un numero sempre crescente di opinionisti, a tutti i livelli, di esprimere il proprio commento rinfocolando così l'antico dibattito.

Paradossalmente, fra una tale messe di recensioni, le parole che risuonano meno frequentemente sono proprio quelle dello stesso Tolkien; eppure, l'autore ebbe spesso a commentare a proposito della sua saga, nei ripetuti carteggi che tenne durante la sua carriera. Così, pur nel pieno rispetto della saggistica che in tutti questi anni si è occupata di tale questione, la presente pagina intende riesumare gli importantissimi, e molto significativi, pareri del Professore circa il processo creativo che lo portò a comporre i romanzi e tutti gli scritti a corredo, fino ad offrire una panoramica dei vari piani di lettura a confronto reciproco, e scoprire come in realtà Tolkien stesso si rapportava - e avrebbe voluto che i suoi lettori facessero - col meraviglioso mondo di Arda.

L'aspetto fiabesco

Una vicenda ambientata fra reami antichi e blasonati, creature eteree e trascendenti e mostruosi demoni non poteva che essere classificata nel novero dei racconti fiabeschi (Of course, assecondando lo stereotipo del lettore britannico): e così, invariabilmente, avvenne nel caso dell'uscita sugli scaffali dei librai della prima edizione di «The Lord of the Rings». Nulla di disdicevole per il Professore, di cui si tramanda che aborrisse la lettura di qualsivoglia romanzo al di fuori del filone fantastico, e che ponesse la fiaba al più alto grado della scala dei generi letterari.

Peraltro, una fiaba che si rispetti deve contenere una morale, più o meno evidente; ma se questa è facilmente individuabile nei brevi brani delle raccolte esopiche, nell'arco delle migliaia di pagine che narrano delle Guerre dell'Anello e delle avventure hobbit la cosa si complica - a causa delle varie e numerose trame che s'intrecciano nel corso della narrazione, che abbraccia comunque un periodo di tempo misurabile in anni. Qualora poi si prenda in esame anche l'immenso patrimonio di materiale preparatorio, concernente mitologie, linguistica, geografia e storia relative a tutti i popoli della Terra di Mezzo nell'arco di tre Ere del mondo, il panorama si complica vieppiù. Ridurre il tutto ad un'allegoria della lotta fra il Bene e il Male appare, sebbene azzeccato, comunque riduttivo - un argomento del genere poteva anche essere schematizzato in un romanzo d'avventura più tradizionalista, senza bisogno di ricostruire la storia del pianeta partendo addirittura dalla cosmologia. Taluni ravvisano, nella potenza di fuoco e nella collocazione geografica delle fortezze dei Signori dell'Ombra, un quadro della situazione politica del tempo in cui Tolkien compose il progetto dell'opera, vale a dire il tristo scenario delle Guerre Mondiali: Tolkien tuttavia negò più volte qualunque riferimento diretto di questo genere, anche se nella lettera alla signorina Beare egli dice che il romanzo «è solamente un'invenzione, per esprimere, nell'unico modo che conosco, alcune delle mie (cupe) apprensioni nei riguardi del mondo». Poco prima, però, parlando della dicotomia fra i Valar e Morgoth e del ruolo dell'Uno, afferma con decisione: «Devo dire che tutto questo è un mito», aprendo - con questo ed altri riferimenti - ad un'interpretazione dell'opera di livello differente.

L'epopea di Elfi ed Hobbit

Dell'argomentazione in favore della visuale mitologica delle opere tolkieniane verrà dato solo qualche breve accenno, data la complessità che una simile analisi richiederebbe - e che altri, ivi compresi alcuni autori di cui Eldalië si onora di pubblicare i testi, hanno già affrontato con degni risultati.

Basterà ricordare che la componente leggendaria ha un peso notevole, nell'ambito della saga della Terra di Mezzo; assai più che in alcuna altra pubblicazione di cui si abbia notizia. Numerose citazioni attestano il fatto che il Professore, appassionato della storia delle sue terre e spiaciuto che, a differenza di quanto accade per altre realtà nordiche, gran parte delle leggende più antiche fosse andata perduta, si fosse affaccendato per colmare la lacuna redigendo in proprio alcunché di analogo (il reale motivo per cui ciò ebbe luogo, peraltro, è assai ben descritto su Ardalambion a proposito del «vizio non proprio segreto»). Il risultato è quel corposo novero di tradizioni, di cui il Silmarillion  non è che un succinto compendio, e che contribuisce in modo notevole al prestigio ed al fascino dei romanzi.

Aggiungere altre notizie sul filone mitologico distoglierebbe dallo scopo del presente articolo, e non renderebbe giustizia ad una tematica che richiederebbe ben altro approfondimento. Tuttavia, l'esame delle fonti porta alla luce un tema ugualmente intrigante, mai enunciato apertamente sebbene lasciato intravvedere, quasi ammiccante, «tra le righe» delle varie pubblicazioni di Tolkien.

Cronache da un 'altro' mondo

«In una buca nel terreno, lì vive uno Hobbit». Da questa semplice frase, poco più che un ghiribizzo annotato fra carteggi di tesi accademiche di un laureando J.R.R. Tolkien, sarebbe scaturita la monumentale storia delle Guerre dei Gioielli e dell'Unico Anello. Cosa che forse molti già conoscono, ma che a dispetto della sua notorietà appare ugualmente straordinaria, è che al momento di vergare di getto quelle parole Tolkien non aveva la minima idea di cosa fosse un Hobbit - nel giro di qualche decennio, comunque, il concetto gli si sarebbe ben chiarito... Ulrike Killer (si veda la postfazione all'opera citata in calce al presente articolo, la cui lettura è senza dubbio illuminante) pone questo famoso aneddoto in relazione con un'altra asserzione, più tarda, del Professore: «Sempre ho avuto l'impressione di descrivere qualcosa che era già "lì", che esisteva [...]». Dunque, Tolkien si poneva nei confronti della Terra di Mezzo in modo affatto particolare, rispetto a quanto avviene per un romanziere tradizionale alle prese con i luoghi, i personaggi e le vicende che dalla sua fantasia creativa scaturiscono: né di questo faceva mistero.

Nella bozza della lettera a W.H. Auden, il concetto è esplicitato con sublime chiarezza: «Io ho la mentalità dello storico. La Terra-di-mezzo non è un mondo immaginario. Il nome è la forma moderna (apparsa nel XIII secolo e ancora in uso) di midden-erd/middel-erd,  l'antico nome di oikoumene  [...]». Dunque, nel caso di Arda e dei suoi abitanti si può legittimamente parlare di un mondo "inventato", a patto però di leggere il termine nella sua originaria accezione di "scoperto". Tolkien poneva sul medesimo piano le scoperte che effettuava ricercando sui suoi testi di riferimento (dal Kalevala  ai poemi gaelici che tradusse, e così via per ciascun volume della nutrita raccolta che aveva accantonato, e che non mancò d'impressionare Humphrey Carpenter) e le scoperte, a livello intellettuale, che gli permettevano di divisare linguaggi, miti, personaggi e luoghi: da ciò ebbe sempre la convinzione di incarnare il ruolo dello storico - descrivendo però fatti di cui non poteva essere stato testimone oculare, e che pure gli si svolgevano dinanzi in modo non meno evidente, quantunque non sensibile. Nella lettera ad A.C. Nunn scrisse: «[...] per quanto riguarda la Terza Età mi considero un semplice "cronista"» (l'oggetto della disputa epistolare era una presunta incongruenza che Nunn aveva riscontrato riguardo al tema dei regali ai compleanni Hobbit). Si potrebbe pensare ad una tale immedesimazione come a qualcosa di non consono alla dignità di un illustre accademico, per di più appartenente ad una genìa la cui flemma è addirittura proverbiale: andando però ad esaminare talune circostanze, si scopre che tanto entusiasmo poteva avere per lo meno qualche giustificazione.

Sempre nella postfazione di U. Killer è citato un episodio assai pregnante, che risale al periodo in cui Tolkien era ancora immerso nello studio della poesia in inglese antico. Orbene, da un testo datato attorno al VIII secolo, dovuto probabilmente alla penna d'un tale Cynewulf, emersero due versi che non potranno lasciare indifferente un lettore che abbia amato i romanzi sulla Terra di Mezzo:

Eala Earendel engla beorthast / ofer middangeard monnum sended

che suonano più o meno «Evviva Earendel, angelo radioso / mandato dagli uomini dalla Terra-di-mezzo». Chiaramente la dotta scoperta è anteriore alla composizione delle saghe - diversamente saremmo a parlare di un chiaroveggente, emulo del celebre Nostradamus ma con l'attitudine opposta, rispetto a quella del celeberrimo divinatore, vale a dire di captare alla lettera eventi di epoche remote; quando invece Tolkien recava tutte le apparenze di un brillante studioso di lingue col pallino della narrativa fantastica, ma non si ha notizia del fatto che possedesse un Palantír col quale esplorare a ritroso i millenni trascorsi. Comunque la si metta, la lettura di quei versi mise in subbuglio l'estro creativo del Professore, e gli ridestò nell'animo perduti ricordi di un eroe protostorico, che giunse in guisa di mistico faro in soccorso dell'umanità vessata dai Signori del Male; di lì sarebbe iniziato il percorso che portò poi alla successiva stesura delle storie delle Fate, poi divenute Elfi, e del loro ingresso nel mondo fino all'avvento dei Mezzuomini - e si ricordi che tutto questo avveniva nel nostro mondo, e più precisamente nel suo bel mezzo, la middangeard degli antichi: dunque in un luogo ben determinato, sito (sempre secondo la lettera alla Beare) nei pressi dell'odierna Europa; quanto al periodo, sarebbe arretrato di due ere rispetto ai giorni nostri, che corrisponderebbero così alla Quinta Era*. Si direbbe che il puntiglio nel collocare nel tempo e nello spazio il teatro delle vicende sortisca un effetto talmente "realistico" e verosimile, da far nascere per lo meno l'ombra di un sospetto: tanto più se si considera la presenza di talune circostanze, come quelle di cui si dà cenno nella conclusione...

* A onor del vero, i recenti studi compiuti dagli scienziati Robert Bauval, Graham Hancock, Adrian Gilbert e Maurice Cotterell sono coerenti nel datare l'ultimo grande diluvio e gli eventi catastrofici, che si ipotizzano correlati alla scomparsa della misteriosa civiltà denominata Atlantide, circa 10.500 anni prima di Cristo; ma ovviamente Tolkien, nel periodo in cui scrisse l'Akallabêth, non poteva essere al corrente di tali teorie.

Commento

Quanto sopra non abbisogna di alcuna dichiarazione chiarificatrice in calce, dal momento che l'intero articolo nasce con funzione di commento in merito alle possibili interpretazioni del senso dei romanzi di Tolkien.

Pertanto, volendo evitare reiterate ripetizioni di concetti già esposti, e per non scadere nel vizio dell'autocitazione, si rimanda direttamente a quanto sottolineato nel commento finale di un altro articolo della presente raccolta, Strani ritrovamenti, circa possibili appigli per un'ipotetica collocazione dell'epopea elfica nella storia del pianeta - i quali non mancano. Si badi bene, non si tratta che di speculazioni; è però innegabile che da esse promana un'aura di mistero che arricchisce vieppiù l'opera del Professore.


Bibliografia

" Antologia di J.R.R. Tolkien", Ulrike Killer, Rusconi, 1995;

 

           
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